RELIGIONE
Eutanasia: uno sguardo oltre la linea
dal Numero 27 del 7 luglio 2019
di Antonio Farina

La deriva eutanasica, laddove raggiunga anche i cattolici, segna non solo una perdita di consapevolezza riguardo all’indisponibilità del bene della vita umana – dono di Dio intangibile dal concepimento fino alla fine naturale –, ma anche una netta perdita di fede nelle realtà ultraterrene dei Novissimi.

Uno dei tanti giornali che pubblicano la loro testata sul web l’11 luglio del 2013 così titolava: D’Amico non era malato. Ma in Svizzera lo hanno ucciso lo stesso. Come funziona il suicidio assistito? (1).
Chi era Pietro D’Amico? Pietro D’Amico, 62 anni, ex sostituto procuratore generale di Catanzaro – la cui vicenda umana e professionale ha scosso i palazzi di giustizia anche della Campania perché a Salerno D’Amico fu messo sotto indagine sospettato di aver passato informazioni ad uno degli indagati dell’inchiesta Poseidone – ha volutamente imboccato la tragica strada dell’eutanasia. Psicologicamente molto prostrato a causa del clima di “veleni” che regnava, a suo tempo, nella procura di Catanzaro, ha deciso di farla finita in preda ad uno stato di depressione che il suo medico curante aveva definito “molto grave”. Paradossalmente nell’aprile del 2011 su richiesta della procura salernitana arrivò il “non luogo a procedere” e l’archiviazione del caso: D’Amico era innocente. Lui stesso ebbe a dire che «il fatto d’essere stato accusato di fatti ignobili è stato per me un calice troppo amaro da bere». Si sa come vanno oggi le cose: molto facile sbattere il mostro in prima pagina, molto più difficile è riabilitarne l’onorabilità. A detta di molti l’uomo era trasparente, corretto e integerrimo, come persona e come magistrato. Pietro D’Amico, inoltre, oltre che esperto di diritto romano e di filosofia del diritto, era anche un cattolico dichiarato e praticante. Nella sua drammatica uscita di scena leggiamo innanzitutto lo sconvolgente e devastante potere della mente che sprofonda nell’abisso della depressione. Ma non è soltanto questo che ci interessa, e neanche il modo laconico e quasi asettico con cui è stata comunicata ai familiari la sua dipartita: una fredda telefonata in cui si avvisava la figlia, ignara di tutto, che il papà si era spento in una clinica di Basilea, “aiutato” da una dottoressa a mettere lui stesso in funzione la flebo che di lì a poco l’avrebbe ucciso. In tanti si sono “stracciati le vesti” perché nel caso specifico non c’era un male incurabile, non c’era un malato terminale da assistere oppure una patologia degenerativa che potesse dichiararsi oggettivamente “insopportabile”. C’era – questo sì – un grave stato depressivo, una profonda oppressione, ma pur sempre curabile, e allora?
Il ruolo dei medici svizzeri sembra stato ancor di più improvvido ed eticamente ingiustificato. Ma – ce lo dimentichiamo sempre più spesso – l’eutanasia è sempre eticamente ingiustificata. Tuttavia il problema – se possibile – è un altro, molto più profondo, più generale, più coinvolgente per noi tutti: come si è arrivati al triste epilogo del suicidio assistito? Al di là della disperazione e della sofferenza psichica personale, quale forma di ragionamento ha portato un uomo retto ed intelligente a voler chiudere la vita in un modo così drammatico? Lungi dal puntare il dito o dal voler entrare in una logica di giudizio di coscienza che compete solo a Dio, proviamo ad analizzare quali motivazioni, apparentemente ineccepibili, possano spingere all’eutanasia.
Per un ateo, per un non credente, il dilemma semplicemente non esiste: la dolce-morte appare come l’opzione ottima, la soluzione finale, l’annichilamento assoluto, la fine di tutto. In mancanza di qualsiasi aspettativa oltremondana, in assenza della metafisica, la cessazione dell’attività biologica deve necessariamente coincidere con la sparizione della coscienza. Dunque, in mancanza di una qualità di vita accettabile la morte si presenta come la scelta migliore, quasi obbligata. Quanto si ingannino gli increduli è un tema ancor più vasto che trascende quello del fine-vita per riverberarsi su tutta la vita. Che l’opzione del “trapasso assistito” sia stata abbracciata da un cattolico dichiarato suscita un’inevitabile perplessità perché potrebbe essere (ed il dubbio appare fondato) che l’eutanasia stia diventando un pensiero minimalista che si sta facendo largo anche tra le fila dei cosiddetti credenti. Non sarebbe la prima volta visto ciò che sta succedendo sul fronte della morale del matrimonio, dell’unione uomo-donna o dell’etica sessuale in generale.
Messo da parte per il momento il delicato problema del confine (labile ma definibile) tra accanimento terapeutico e morte indotta (la perdita di dignità nel fine vita, intesa come una dolorosa agonia prolungata artificialmente, è anch’essa un espediente contrario alla volontà di Dio), affrontiamo la questione del suicidio assistito. La Dottrina cattolica tra le tante verità affermate e dimostrate nel suo Magistero ci presenta la realtà del Purgatorio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica così si esprime: «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del Cielo.
La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati. La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al Purgatorio  soprattutto nei Concilii di Firenze [cf. Denz.-Schönm., n. 1304] e di Trento [cf. ivi, nn. 1820; 1580]. La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, [cf. ad esempio, 1Cor 3,15; 1Pt 1,7] parla di un fuoco purificatore» (nn. 1030-1031).
Altrettanto chiara è la veridicità del fatto che ogni pena (del senso) in Purgatorio sorpassa (e di molto) ogni sofferenza patita sulla terra. Ci sono molte testimonianze in tal senso: sant’Agostino (354-430) e sant’Alfonso M. de’ Liguori (1696-1787) dicono che il fuoco che brucia i dannati all’inferno è lo stesso di quello che purifica le anime del Purgatorio. La differenza sta nel fatto che il primo è eterno, il secondo temporaneo. A confermare questa opinione vi è anche ciò che scrive santa Faustina Kowalska (1905-1938) nel suo Diario dopo che ha ricevuto un’apparizione di un defunto: «Non ho parole né termini di paragone per esprimere cose così terribili e, sebbene mi sembri che quell’anima non sia dannata (dunque santa Faustina sta parlando del Purgatorio), tuttavia le sue pene non si differenziano in nulla dalle pene dell’inferno. L’unica differenza è che un giorno finiranno» (2). Sicuramente pene più terribili di quelle della vita terrena. Sant’Alfonso riporta in un suo scritto ciò che narra sant’Antonino. Ad un infermo fu proposto dal suo Angelo custode se volesse per tre giorni rimanere nel Purgatorio oppure giacere nel suo letto malato ancora per due anni. L’infermo non ebbe un attimo di titubanza e subito disse di preferire il Purgatorio. Fu così che morì quel giorno stesso. Andò in Purgatorio. Per lui passò tanto di quel tempo che gli sembrava fossero trascorsi anni. Si lamentò con l’Angelo perché non si era realizzato ciò che gli aveva promesso. Ma l’Angelo gli rispose: «Che dici? Il tuo cadavere è ancora caldo nel letto. Sono passate poche ore dalla tua morte...». L’anima capì allora che sarebbe stato molto meglio vivere infermo ancora per due anni piuttosto che rimanere per pochi giorni in Purgatorio. Anche le anime a cui sono risparmiate le pene più terribili soffrono pene intollerabili (3). Cosa accade se queste certezze (secolari) vacillano?
Cosa ci si può aspettare, anche da un cristiano, se si ritiene che la morte sia la cessazione di ogni sofferenza, che – come si sente sempre più spesso nel panegirico dei funerali – l’anima del defunto “ormai riposa nella gioia dei beati nel Cielo”, che “...ha finito di soffrire”, ecc.? È più che lecito domandarsi che cosa avrebbe scelto il povero magistrato D’Amico se invece di trovare sulla sua strada una dottoressa fredda esecutrice di una sentenza non scritta fosse stato adeguatamente curato della sua depressione, se avesse avuto al suo fianco un conforto spirituale, o una guida, se non fosse stato lasciato così solo a combattere i fantasmi che agitavano la sua mente, se fosse stato accompagnato sulla via dolorosa del perdono e della rassegnazione cristiana. Dal 2013 sono passati sei anni: quello che allora fu presentato come “un caso sconcertante” oggi non fa neanche più notizia: innumerevoli sono gli “ultimi viaggi” verso la patria del suicidio assistito: «Secondo il radicale Marco Cappato, ogni giorno un italiano si reca in Svizzera per andarsene in maniera indolore» (4). Forse ha ragione Cappato, abbiamo trovato una maniera per “fare il viaggio” in modo indolore ma su quel che ci attende alla “stazione di arrivo” Cappato non si pronuncia, resta in silenzio come Cesare Pavese nel suo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: «...Scenderemo nel gorgo muti».  

NOTE
1) Cf. www.tempi.it/damico-suicidio-assistito-svizzera-autopsia-magistratura-morte/
2) Cf. ad esempio: https://lucechesorge.org/2016/10/31/­le-terribili-pene-del-purgatorio/
3) Ibidem. Cf. anche: P. Louvet, Il Purgatorio nella rivelazione dei Santi, Casale (Alessandria) 1958, pp. 98-99.
4) https://www.agi.it/cronaca/come_funziona_leutanasia-1531987/news/2017-02-27/

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