ATTUALITÀ
Legge morale naturale e principi non negoziabili
dal Numero 27 del 7 luglio 2013
di Padre Serafino M. Lanzetta, FI

Sembra che oggi ci si voglia accomiatare dall’umanità, percorrendo la strada del rifiuto dei principi morali non negoziabili. Perciò è quanto mai urgente una riflessione che chiarisca tali concetti fondamentali.

Cos’è la legge morale naturale? Nel nostro mondo così pluralistico è sempre più sfaldato il concetto di “natura” o “essenza” e di conseguenza facciamo fatica a capire cosa voglia dirci legge morale naturale.
San Tommaso d’Aquino, citato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor (1993), insegna che la legge naturale «altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l’ha donata nella creazione» (n. 12).
Ma tanti vorrebbero vedere una sorta d’indipendenza della ragione rispetto alla legge naturale. Se essa mancasse, la razionalità non sarebbe veramente un bene per tutti ma solo per pochi, per i credenti.
Chiediamoci: si dà un’autonomia della ragione rispetto alla legge? Autonomia sì, se si intende che la ragione ha iscritti in sé i principi primi del conoscere e dell’agire e non li attinge se non da sé, ma mai intesa come autodeterminazione rispetto al bene universale e quindi alla legge morale. In definitiva, non è la libertà di coscienza da cui dipende la legge naturale ma è la legge naturale da cui deve dipendere la libertà di coscienza.
Giovanni Paolo II, nell’enciclica citata, così insegna: «La giusta autonomia della ragione pratica significa che l’uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l’autonomia della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali. Se questa autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione pratica alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse una libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche o delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe l’insegnamento della Chiesa sulla verità dell’uomo. Sarebbe la morte della vera libertà: “Ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gen 2,17)» (Veritatis splendor, n. 40).
L’obbedienza alla legge morale naturale, invece, per molti, sarebbe una supina accettazione di un “dogma naturale”, uno dei ritrovati cattolici per eliminare radicalmente l’insubordinazione di quelli che si definiscono “laici”, a cui piegarsi col rischio però di subordinarvi la coscienza e quindi la libertà. Questo, di fatto, porterebbe a non trovare mai soluzioni ampiamente condivise nel panorama frastagliato della nostra società. Il Cattolicesimo s’imporrebbe con le sue pretese veritative e il vero dialogo (politico) sarebbe semplicemente calpestato.
Andando più a fondo, alcuni critici parlano di “eteronomia”, nel caso in cui la coscienza dovesse abdicare al suo ruolo di sentinella dell’assoluto e soggettivo esserci in questo mondo per ascoltare altro da sé, altro e fuori di sé, come il caso di una legge che precede o supera la stessa coscienza. Tutto questo sarebbe un contraddire la libertà di coscienza.
In verità, non si dà eteronomia perché i principi primi dell’agire morale sono attinti dalla legge eterna di Dio, da Dio stesso Creatore e datore di ogni bene, ratio boni. Ci sarebbe eteronomia e quindi limitazione della libertà solo se Dio non fosse il Creatore e se l’uomo, in ultima analisi, fosse il fattore di se stesso. Negare il Creatore e la ragione umana fatta ad immagine di quella divina, significa determinare il distacco della creatura dal Creatore, quindi un auto-orientamento umano al bene che, di conseguenza, non sarà più il bene appreso da Dio ma da noi stessi; Dio stesso non sarà più un bene ma un male per l’uomo. Questa è la menzogna del serpente velenoso.
L’uomo rimane una creatura. La sua natura relazionale e contingente sarebbe una menzogna, una vacuità, se non attingesse la sua ragione d’essere da un Altro, da Dio.
In altre parole, la legge naturale è la stessa ragione e l’amore partecipati da Dio all’uomo, la “misura” entro la quale si conserva la verità dell’essere, perché ogni uomo, con la sua libertà, possa rimanere sempre tale. Sembra però che oggi ci si voglia congedare dall’umanità. E la strada è proprio quella del rifiuto dei principi morali non negoziabili.
Di più. Siccome il concetto di “natura”, come su accennavamo, è fortemente equivoco, ci si dovrebbe da esso smarcare con una nuova riflessione. Particolarmente dal Rinascimento in poi, passando attraverso la Riforma protestante, natura assume un connotato che va sempre più verso ciò che è fattibile, scostandosi dal suo significato di operazione intrinseca di un ente, quindi dal suo concetto metafisico. Oggi poi natura ci dice soprattutto modificabilità, tecnica applicata per rendere le cose apprezzabili dal proprio punto di vista. Ci si chiede allora: a quale natura riferirsi? Quella materiale, biologica, psichica? Per non rischiare di provocare un’incomprensione generale con gli interlocutori, la Chiesa dovrebbe rinunciare al concetto di “legge naturale” e aprirsi a un nuovo connotato, al concetto di legge morale naturale. Qui l’aggiunta marcata di “morale” a legge – che del resto è presente costantemente nel Magistero o anche se assente non cambia la sostanza –, implicherebbe però uno spostamento dalla natura in sé, da ciò che si dà in se stesso e non può cambiare, a ciò che invece è oggetto non di fissità incomprensibile ma della sfera morale, a ciò che implica quindi la libertà. Dalla natura si dovrebbe passare alla persona e quindi alla libertà che non può far riferimento a nient’altro che alla coscienza. L’aggettivo “morale” provocherebbe quindi, a giudizio di alcuni, un cambiamento paradigmatico, udibile da tutti: si ragiona partendo dalla coscienza, sacrario della verità, e non dalla legge.
Si tratta anche qui di un sofisma. Partire dalla coscienza implicherebbe non partire più da Dio, datore del bene morale? Libertà farebbe a meno della legge eterna del Creatore? È una declinazione nuova ma del costante problema di come coniugare legge e libertà. C’è un solo modo: Dio, che è lògos e amore, dono, intelligenza e libertà. Solo se c’è un’idea giusta di Dio si risolve il problema di una falsa eteronomia in cui il soggetto dovrebbe rinunciare a se stesso per fare spazio alla legge.
La legge non è una proiezione del dovere morale voluto per se stesso ma è l’amore di Dio scritto come verità nel cuore della sua creatura. Un amore che rende veri. E solo nell’adeguazione a quest’amore si diventa veri.
Resta però, infine, un punto importante da sottolineare: cos’è la coscienza morale? In nome della coscienza oggi si rischia anche di opporre l’uomo a Dio, perché sarebbe l’ultima vera istanza, fautrice tanto della legge morale quanto della scelta. Invece, bisogna ridimensionare questo soggettivismo morale dilagante: la coscienza, dice san Bonaventura, non è il re è solo un araldo, annuncia una verità e la sceglie in ragione del bene che è dato di fare o del male che si deve evitare qui e ora. È un giudizio pratico mediante il quale la ragione umana applica la legge universale e sempre obbligante al caso concreto. Non crea il bene o giudica i principi morali ritenendoli vincolanti o meno nel caso concreto. Se lo facesse si ergerebbe a giudice creatore della norma. Si metterebbe al posto di Dio.
La coscienza, invece, può giudicare in quanto vi è una verità morale oggettiva che precede. Queste verità morali universali sono i precetti della legge naturale e tra essi dobbiamo enumerare i nostri principi non negoziabili. Se mancano le norme universali e immutabili svanisce anche la coscienza.
Allora appellarsi a essa contro i valori non opinabili per deciderne di volta in volta la loro obbligatorietà o una possibile gradualità nella loro applicazione è semplicemente falso e moralmente impossibile: la coscienza sarebbe identificata con la libertà e perciò, in ultima analisi, con la verità. La libertà sarebbe l’unica verità e così avremo decretato la tragica scomparsa non solo di quell’uomo che si arroga il diritto di mettersi al posto di Dio, ma di ogni uomo che potrà esserci. Non ci saremo più, per il semplice fatto che è impossibile essere quello che ognuno vuole essere.

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