ATTUALITÀ
Se l’eutanasia diventasse legge
dal Numero 23 del 11 giugno 2017
di Lazzaro M. Celli

La perdita di sensibilità verso le persone “più deboli”, l’avanzare di un’“idea eugenetica”, la pratica di una morte tutt’altro che “dolce”, un certo disimpegno da parte del medico nella tutela della vita umana, ecco le contraddizioni e i fallimenti a cui si va incontro con le DAT.

L’approvazione della legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento, in pratica l’eutanasia, comporterebbe un altissimo rischio di deriva sociale. Lo prova il fatto che nei Paesi dove è stata introdotta la legge c’è stato un aumento vertiginoso dei casi di richiesta della pratica fatale.
Ciò contraddice i sostenitori delle politiche antiproibizioniste, secondo i quali la legalizzazione provocherebbe una riduzione della richiesta di eutanasia. I fatti dimostrano che non è così; anzi, nei Paesi in cui l’eutanasia è legge, si sono verificati molti casi in cui i soggetti più deboli sono stati oggetto di pressioni psicologiche, facendoli sentire come un peso per l’intera collettività; ciò sia sul piano umano, in termini di assistenza fisica, sia sul piano finanziario, a causa delle scarse risorse economiche del comparto sanità.
Tutto questo non contribuirà a modificare la percezione della persona portatrice di handicap? Nel senso che non instillerà nelle coscienze quell’idea eugenetica, tanto cara ai regimi totalitari, di eliminare le persone che nascono con una limitazione dell’uso di una funzione fisica o psichica e, quindi, in qualche modo considerate come “prodotte con un difetto di fabbrica”? 
La legge sull’eutanasia è un grosso inganno. Non solo perché non è una morte dolce, in quanto sospendere l’idratazione di una persona provoca una morte atroce, ma soprattutto perché è privo di fondamento il presupposto stesso su cui si fonda la richiesta di eutanasia. Infatti, normalmente si fa credere che si chiede l’eutanasia per porre fine ad insopportabili sofferenze fisiche; in realtà, lo dicono i dati scientifici, quasi il 70% delle persone la richiede perché affetti da depressione, stanchezza di vivere, disperazione, perdita del controllo di sé e della propria dignità. La legge sull’eutanasia, se approvata anche in Italia, ci avvierà a scenari cupi. Non aprirebbe alla condanna a morte dei malati psichici più fragili?
Altra infausta conseguenza sarebbe quella di stroncare la fiducia del paziente verso il medico. Da sempre, il malato vorrebbe vedere in esso una persona dalle alte qualità umane, professionali e morali, che sappia prendersi cura della propria vita, a prescindere dal rapporto privilegiato con il medico curante; pensiamo, per esempio, a chi deve ricoverarsi con urgenza in ospedale per un malore improvviso. Se l’ammalato avrà la percezione che la sua sopravvivenza possa essere influenzata da quel filone rinunciatario della politica sanitaria, che già comincia ad adombrarsi anche nei nostri ospedali, quale stato di angoscia lo pervaderà? Lo scarso senso di fiducia nel trattamento sanitario, oltre alla già esistente sfiducia nella sanità pubblica, sarà aggravato anche dallo stato di sconforto derivante dall’affermazione di un modo d’intendere la professione medica più tendente a prostrarsi ai desideri del pensiero dominante che all’effettiva cura del paziente, facendo tutto, ma proprio tutto, quanto è possibile per salvargli la vita. Se la legge sull’eutanasia fosse approvata i tentativi per garantire la sopravvivenza del paziente diventerebbero più opachi, più fragili.
Vorrei qui ricordare un episodio accaduto ad Alberto Zangrillo, un uomo con la passione per la professione medica e che nel 2008 rifiutò la carica di ministro della sanità offertagli da Berlusconi. Poco più di due anni fa, un ragazzino non ancora quindicenne si tuffò nelle acque del fiume Naviglio, senza più tornare a galla. Restò circa quaranta minuti sott’acqua prima di essere tirato fuori e portato in ospedale al reparto di rianimazione del San Raffaele. Il dottor Zangrillo riuscì a rianimarlo, grazie ad un’intuizione e all’impiego di un macchinario. Se il medico avesse dato ascolto ai familiari che, di fronte ad un’evidenza così schiacciante – quaranta minuti d’immersione – avessero chiesto di rinunciare ad ogni altro tentativo di rianimazione del figlio, oggi, quel giovanotto di nome Michi non avrebbe continuato la sua vita. Un medico ha sempre l’obbligo di tutelare la vita del paziente e di essere, in un certo senso, portatore di speranza. L’eutanasia cambierà anche questo e farà del medico un servo del potere.
E se, come Saviano, in nome di una falsa pietà, si lanciano proclami di richieste di scuse che gli italiani “dovrebbero” a Fabiano Antoniani, il dj che si è fatto togliere la vita in una clinica Svizzera, molto più umanamente, il professor Zangrillo, in una intervista concessa a Caterina Gioielli, chiede scusa «alle migliaia di persone sconosciute e povere che in Italia muoiono in modo inumano perché non hanno la possibilità di essere assistite ed aiutate nelle drammatiche fasi della loro malattia».

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