APOLOGETICA
L’ineludibile questione della morte
dal Numero 8 del 21 febbraio 2016
di Corrado Gnerre

Solo chi riesce a mettere a fuoco l’evento della morte, dandole un significato che vada oltre la semplice “fine biologica”, può dire di essere un uomo vero. Guareschi, con i suoi racconti, lo spiega in modo divertente e convincente.

C’è un filosofo che ha fatto non pochi danni... e ne continua a fare. Un filosofo alla moda. Amato un po’ da tutti, finanche da certi cattolici che hanno fatto fuori san Tommaso solo perché medioevale e troppo antico... in realtà le motivazioni per cui l’hanno fatto fuori sono ben altre, ma lasciamo stare. Un filosofo per giunta con qualche “scheletro nell’armadio” per antichi appoggi al Nazismo. Si chiama Martin Heidegger.
Ebbene, costui, tra non poche sciocchezze, dice una cosa interessante: la morte è il principio di definizione dell’uomo. Ovviamente lo dice con un’impostazione venata di esistenzialismo che alle volte sfiora il nichilismo, ma lo dice non celando una questione che solo gli sciocchi possono negare, ovvero che molti problemi dell’uomo si riconducono al riconoscimento e all’incombenza della morte e a cercare di darle una spiegazione. Chi non lo fa – dice Heidegger – non vale un fico secco, non è uomo e la sua vita diventa (la definizione è proprio sua) “inautentica”.
Su questo punto dargli torto è come pretendere di portarsi in viaggio per i Caraibi lo slittino per la neve. C’è poco da fare, è così: la morte è il destino biologico, ma anche il destino esistenziale di tutti, nel senso che il pensarvi, il riconoscerla, il darle senso, è il pensiero dominante di chi vuol essere uomo, cioè di chi non vuol tradire la propria umanità. Ed ecco perché non bisogna fare molto i “puristi” (lo dico prima di tutto a me stesso) e storcere il naso nei confronti di coloro che hanno vissuto un’intera esistenza senza pensare a Dio e poi se ne ricordano in punto di morte o quando la morte sembra inevitabile come nel caso di una grave malattia. Anzi, di coloro bisogna avere stima perché hanno comunque il coraggio di rivedere umilmente certe posizioni. Chi, invece, pretende affermare che senza Dio non solo non cambia nulla, ma addirittura la vita ne risulterebbe “liberata”, tradisce la propria intelligenza e quindi anche la propria umanità. E non ha capito proprio nulla... proprio come chi va ai Caraibi portandosi dietro lo slittino per la neve!
Ebbene, a proposito di umanità, cioè di questa umanità qui, quanto insegna Guareschi! In un suo racconto, Il Voto, inserito nella raccolta L’Anno di Don Camillo, si racconta di Don Camillo che stava in campagna a cacciare con il fidato Ful. La terra era fangosissima e l’umidità alle stelle. Erano giorni e giorni che pioveva...
«Non s’era mai visto un autunno così vigliacco e traditore: quando non pioveva a scroscio, piovigginava. E se, per miracolo, durante la mattina veniva fuori una spera di sole, nel pomeriggio piombava giù una nebbia che bagnava più dell’acqua. La terra era fradicia, marcia patocca, e tutti parevano matti perché non si riusciva a seminare il grano. Le bestie si piantavano nelle colture fino alla pancia, i trattori macinavano a vuoto perché le ruote a gabbia si riempivano di terra e diventavano pesanti una tonnellata l’una. Soltanto i pazzi potevano girare per i campi. I pazzi o i cacciatori perché i cacciatori non sono, in definitiva, che dei pazzi a piede libero».
Improvvisamente, tra fango e nebbione, Don Camillo incontrò Peppone...
«Disse Peppone rivolgendosi al curato: “Invece di far perdere del tempo inutile al vostro cane, sarebbe meglio se steste in ufficio a pregare il vostro principale di far venire il sole”.
Don Camillo si spostò dal sentiero: “Il mio principale non ha bisogno di consigli: lo sa lui quando deve far piovere e quando deve far venire il sole”.
“A me pare di no – replicò Peppone incamminandosi per il sentiero –. Il vostro principale si è dato troppo alla politica e così trascura l’amministrazione”».
Come atto di fede niente male! Ma Peppone aveva il volto scuro e non era solo. Sulle spalle aveva un suo pargolo di soli cinque anni. Il Pretone, ovviamente, gli chiese se il signor sindaco avesse smarrito il cervello o eventualmente si fosse scolato una botte di lambrusco visto che alla sua età si permetteva di portare a passeggio un bambino per quelle campagne e con un tempo così...
«Don Camillo non si curò di rispondergli e, rimessa la doppietta sotto il tabarro, si incamminò anche lui, dietro a Peppone.
Passato il Canalaccio, Peppone disse senza voltarsi: “Si può sapere quando la pianterete di pedinarmi?”.
“Io vado per la mia strada – rispose don Camillo –. La mia strada perché i campi sono la strada dei cacciatori. Tu, piuttosto, dov’è che vai?”.
“Vado dove mi pare – urlò sempre continuando a camminare Peppone –. Lo avete soltanto voi il diritto di viaggiare in mezzo ai campi?”.
“No: io ho soltanto il diritto di trovare strano il fatto di un uomo il quale, volendo passeggiare tra i campi, in mezzo al fango, in una giornata schifosa come questa, porti con sé un bambino di cinque anni che starebbe tanto bene al caldo in casa”.
Peppone ruggì: “Di mio figlio dispongo io. Impicciatevi dei fatti vostri”.
“Appunto: siccome quel poverino l’ho battezzato io, ce l’ho in carico sul mio registro e ho perciò il dovere di dirti che bisogna avere una zucca piena di crusca per portarlo in giro in queste condizioni”.
Peppone non poté rispondere perché slittò nella fanghiglia e sarebbe finito con la schiena per terra se don Camillo non l’avesse puntellato alle spalle».
In realtà Peppone ne aveva ben donde di avere il viso scuro... e ne aveva ben donde di portarsi dietro il piccolo...
«Don Camillo aprì un momentino il sipario del tabarro per guardare in faccia a Peppone: “Senti, pazzo scatenato: questo bambino scotta e, se tu non lo riporti a casa subito...”.
“Anche se lo riporto a casa subito non cambierà niente! – urlò imbestialito Peppone – Sono due mesi che, tutti i santi giorni, verso sera, gli viene la febbre e il dottore non sa cosa farci! Ridatemelo e non avvelenatemi più l’anima!”.
Don Camillo scosse il capo: “Quo vadis, Peppone?”.
“Quo vadis dove voglio io e quo vienis un accidente a voi e a tutti i clericali dell’universo! – ruggì Peppone – Vado in un posto dove devo andare!”.
“Sta bene: e non ci puoi andare per la strada?”.
“No! No! Devo andarci per i campi. Per la strada non posso andarci. Io posso umiliarmi davanti al Padreterno ma non davanti ai preti e ai loro complici!”».
L’uomo vero (e Peppone, malgrado tanti difetti, è un uomo vero) va ad invocare, consapevole che la vera grandezza di se stessi non sta nel gonfiare il petto o allargare le spalle, bensì nell’inginocchiarsi...
«Finalmente, quando oramai la nebbia era diventata opaca, apparve la mole scura. Una gran fabbrica di mattoni anneriti dagli anni, una fabbrica massiccia e alta, che si levava a lato d’una strada deserta e solitaria e, tutt’attorno, erano campi nudi e crudi. Prati che, un tempo, erano risaie. Una gran fabbrica che, trecent’anni prima, era soltanto una cappelletta e poi era diventata il santuario della Madonna dei campi.
Peppone gettò il ciocco e riprese il bambino: “Voi – disse con ferocia a don Camillo –, voi rimanete fuori. Non voglio che voi veniate dentro a spiare”.
Don Camillo rimase ad attendere davanti alla porta e Peppone entrò col suo bambino in groppa. La Chiesa era fredda e semibuia e non c’era anima viva. Soltanto la Madonna dei campi c’era, di vivo, e i suoi occhi guardavano dolci dall’alto dell’altare».
Ma se Peppone è un uomo vero, anche Don Camillo lo è... anzi è un Prete vero. Uno di quelli che sa fare penitenza, che sa bene che tra tante cose, ce n’è poi una sola che conta: quella di sacrificarsi per gli altri... e allora – ci dice Guareschi –, per star più “comodo”, in attesa che Peppone uscisse dal Santuario, s’inginocchiò su un sasso. Una bella prefigurazione e denuncia di ciò che sarebbe accaduto in futuro a tanti Sacerdoti, disposti a far convegni e studi teologici, piuttosto che a far penitenza per strappare a Dio le grazie.
«Don Camillo rimase a far da guardia fuori dalla porta. Poi, per star più comodo, si inginocchiò su un sasso e disse alla Madonna dei campi le cose che Peppone non avrebbe saputo dirle. Si rialzò quando sentì cigolare la porta.
       “Se dovete dirle qualcosa, potete entrare”. Borbottò Peppone.
“Già fatto”. Rispose don Camillo.
Ripresero la via dei campi: don Camillo ricuperò il bambino e se lo collocò sul collo e gli mise il mantello in testa. Peppone ricuperò il suo ciocco e se lo caricò in spalla. La nebbia diventava sempre più cupa: don Camillo, a un bel momento, dovette chiedere aiuto. Fischiò e, da lontano, Ful rispose. Adesso, con Ful per guida, non era più difficile ritrovare la strada di casa. Giunsero che era notte. Davanti alla porta della canonica Peppone scaricò il ciocco: “Cambio merci”. Borbottò. Tolse il mantello e vide che il bambino aveva reclinato la testa sul testone di don Camillo. “Dorme!” sussurrò Peppone.
“Sì, ma non tutto”. Rispose cupo don Camillo.
“In che senso, reverendo?”.
“Se tu avessi il collo bagnato come il mio, non avresti bisogno di domandarlo”. Spiegò don Camillo restituendo il bambino di Peppone.
“Sarebbe bene che non andaste in giro a raccontare che noi facciamo i bulli e poi, quando abbiamo bisogno di qualcosa... E via discorrendo”. Ammonì Peppone.
“Sarebbe ancora meglio che tu non fossi stupido”. Replicò don Camillo asciutto per quel tanto che poteva.
“Il meglio è nemico del bene”. Affermò Peppone autorevolmente».
Don Camillo si sentiva di aver fatto il suo. Sapeva anche che quel mangiapreti di Peppone si era comportato da vero uomo e anche da buon Cristiano... uno che va dalla Mamma di Gesù a chiedere una grazia, non so se mi spiego. E sapeva anche che la Madonna dei campi aveva guarito il piccolo. Ne fu sicuro quando il “Capo” gli giustificò l’assenza...
«Don Camillo corse in chiesa a inginocchiarsi davanti al Cristo dell’altar maggiore: “Gesù – esclamò desolato –. Perdonatemi se alla funzione serale io non c’ero”.
“Assenza giustificata”. Rispose sorridendo il Cristo».

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