PASSIONE
TEMPO DI PASSIONE: LA VIA REGALE DELL’AMORE-SACRIFICIO
dal Numero 13 del 26 marzo 2023
di Fra Pietro Pio M. Pedalino

Se sapessimo far valere le ragioni della fede e non della natura, della carità e non dell’egoismo, la Croce diverrebbe per noi sorgente inesauribile di gioia e pace spirituali. Essa è per noi «il dolce giogo con cui poter partecipare alla vita e alla missione soprannaturale di Cristo». 

Chi medita la Passione del Salvatore vince il demonio e si santifica più che se facesse centinaia di altre pratiche penitenziali, come insegnano i santi di ogni tempo. È lì che l’eterna Sapienza – come afferma san Luigi M. Grignion da Montfort – ha in modo peculiare manifestato, svelato e “dissigillato” il suo infinito amore per l’uomo. Quale deve essere, di conseguenza, la nostra gratitudine per sì grande carità di un Dio fatto carne? Senza la croce non c’è vittoria. È quanto insegna la nostra santa fede, quanto riluce in modo straordinario non solo dalla vita del divin Maestro, in cui la Croce è stata lo strumento della sua vittoria trionfale su satana e sul peccato, ma anche dalla vita di tanti uomini e donne di Dio che hanno attualizzato il mistero della Croce lungo la storia “completando nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo [ovvero l’applicazione dei meriti salvifici del Cristo] a favore del suo Corpo che è la Chiesa” (cf Col 1,24).
I misteri cristiani della Passione e della Croce racchiudono in sé sempre una duplice dimensione: passione e trionfo, dolore e gloria, apparente sconfitta e vittoria. Ciò che alla ragione appare un’insanabile contraddizione è così armonicamente congiunto dalla sapienza di Dio: è un unico mistero che consta di due fasi. In realtà qui siamo nel cuore stesso del mistero cristiano che vive in una tensione continua tra queste due polarità; l’armonizzazione dell’una con l’altra realtà appare, però, a noi poveri mortali, un grande «segno di contraddizione» (Lc 2,34), perché, se da un lato sappiamo, con la certezza che ci viene dalla fede, che «l’uomo dei dolori» (Is 53,3) che pende dal legno infame è trionfatore della morte, del peccato, di satana, è il Re del Cielo e della terra, Colui in mano al quale è il potere sovrano e il domino assoluto del mondo, dall’altro per quella Croce sulla quale è stato inchiodato ed è morto per la nostra salvezza, il nostro istinto prova spavento e, talvolta, ribrezzo e orrore: non è la Croce uno strumento di condanna, di morte, che nel caso di Cristo diventa anche emblema di vergognosa ingiustizia ed empietà?
Quella Croce, però, lo sappiamo, è stata trasformata dall’onnipotente carità di Cristo nella nostra salvezza, perché Egli l’ha scelta come talamo nuziale su cui consumare, nel Sangue da Lui versato, le nozze con l’umanità nuova da Lui ricreata e rigenerata. «Ave, o Croce – ci fa cantare la liturgia –, nostra unica speranza!». Quella Croce è “trono di potenza”, su cui inizia il nuovo Regno, la cui sola legge è l’amore che rinnova il mondo intero; quella Croce è “culla del creato”, centro del mondo, che riceve nel suo “grembo” il Fiore più bello e prezioso dell’universo; quella Croce è “bilancia del riscatto” su cui è pesato il corpo di Cristo che ha pagato ogni debito e che ha cancellato, per noi, ogni colpa; quella Croce è il “legno della vita”: Gesù, nuovo Adamo, abbracciandola e morendo su di essa, ha offerto al Padre un atto perfetto di religione; è l’obbedienza sacrificale con cui ha riparato la disobbedienza del primo Adamo, a causa della quale l’umanità era diventata «massa di perdizione», per usare un’espressione forte di sant’Agostino.
La Croce è un tesoro prezioso e, come tale, era giusto che fosse messo nelle mani anche dei redenti. Diceva un teologo del secolo scorso – il padre Antonio Royo Marín – che «l’ostacolo più grande alla nostra santificazione è l’orrore della sofferenza»; infatti, se come i santi riuscissimo a cambiare il nostro rapporto con essa, se da nemica ce la rendessimo amica, se da fardello insopportabile, caricatoci fatalmente sulle spalle, la vedessimo in una luce nuova, come dolce giogo con cui poter partecipare alla vita e alla missione soprannaturale di Cristo diventando con lui “corredentori” del mondo per la salvezza di tanti nostri fratelli e sorelle che sono «nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Lc 1,79), tutto sarebbe diverso.
Se solo sapessimo far valere le ragioni della fede e non della naturalità, della carità e non dell’egoismo, la nostra anima fiorirebbe, ogni dolore perderebbe il suo “potere depressivo”, perché la Croce diverrebbe per noi sorgente inesauribile di gioia e pace spirituali. Santa Teresa d’Avila diceva: «Signore, o patire o morire». E una sua discepola, santa Maria Maddalena de’ Pazzi si spinse oltre, arrivando ad affermare: «Patire, Signore, non morire». E che dire di san Francesco d’Assisi? Quel serafino di carità crocifissa che proclamava con fierezza: «Conosco Cristo povero e crocifisso, questo mi basta; tanta è la gioia che mi aspetto che ogni pena mi è diletto». Pazzi? Forse sì. Eppure è di questi “pazzi” per Cristo che appartiene il Regno dei cieli, è di questi “folli” d’amore che la Chiesa e il mondo hanno urgente bisogno. Sì, di questi veri cristiani la cui unica scienza e sapienza è stata la “scientia Crucis”, vissuta riattualizzando nelle loro membra il dolore redentivo di Gesù Cristo.
Sappiamo valorizzare questo mistero! Oggi, tempo dell’ateismo più folle e dell’immoralità più nauseante, il mistero del dolore rimane al centro della storia come una pietra d’inciampo (cf Rm 9,32-33) su cui, a loro danno, si sfracellano tutti coloro che rifiutano Gesù come Salvatore della loro vita o che, peggio ancora, gli fanno guerra: guerra alle sue Leggi, guerra alla sua persona, guerra attraverso gli oltraggi mostruosi di cui è vittima nella Santissima Eucaristia!
San Paolo ci ammonisce: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5), il quale «si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di Croce» (Fil 2,8). Avremo i suoi stessi sentimenti se, invece di lottare contro la croce, così come si presenta nella nostra vita, la accoglieremo con fede e amore: in questo modo leniremo le ferite del nostro amato Salvatore, prima di tutto quelle che gli abbiamo inferto noi coi nostri peccati e poi quelle apertegli di continuo da un mondo scellerato e da una Chiesa fatta di uomini troppo spesso infedeli e fedifraghi. Amiamo Gesù! Amiamolo «non a parole ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18), come ci ricorda san Giovanni. Questo amore sarà tanto più eloquente quanto più sapremo farci “crocifissi col Crocifisso”, “vittime con la Vittima, “riparatori col Riparatore”. 
Insegnava il Signore Gesù alla mistica portoghese, la beata Alexandrina M. da Costa: «Il dolore e l’amore sono il trionfo di ogni combattimento. Il dolore, per le anime amanti della croce, è la vita reale, è la vera vita. Il dolore rassegnato è potente, quando però è accompagnato dall’amore ad ogni croce e dall’amore più puro e forte al mio Cuore divino. Nulla vi è che mi consoli e mi dia sollievo come il dolore, il dolore rassegnato, il dolore sofferto con gioia, perché è accompagnato dall’amore. Il dolore con l’amore fu e continua ad essere la salvezza delle anime. Dove sta la croce, la vera croce, la croce reale, lì sta l’amore; e dove sta l’amore, sta Cristo. Chi ama soffre, chi soffre è ricco; il dolore arricchisce, dà nobiltà al cuore e all’anima. Oh, se il mondo sapesse, oh, se le anime comprendessero il segreto, il vero segreto della perfezione e dell’amore! Oh, se il mondo sapesse, se le anime comprendessero il mezzo più facile per attrarre a sé le misericordie del Signore! Amare e soffrire; soffrire e amare: è il segreto della perfezione, è il più grande mezzo di salvezza».
Per completare questa riflessione allargando leggermente lo spettro della nostra analisi, andrebbe detto che soprattutto in questo tempo di Passione non possiamo, non dobbiamo dimenticare il potere soprannaturale concesso ai figli di Dio. A loro (cioè a tutti noi, se vogliamo...) è dato di poter salvare moltitudini di anime, non facendo chissà che cosa ma semplicemente facendo entrare in azione, in modo robusto, quell’attività soprannaturale legata alla pratica delle virtù e alla lotta contro il peccato. Nelle nostre mani riposano potenzialità divine inenarrabili, che possediamo non per personale conquista ma per dono divino, e che non possiamo lasciare inutilizzate. Ci sarà un giorno chiesto conto dal Giudice divino di come avremo messo a frutto doni di sì alto pregio. C’è da pensare, non senza grande meraviglia, che se ci fosse un buon numero di credenti che vivessero, pensassero e agissero in modo pienamente cristiano tutte le insidie e le volontà dei demoni e degli uomini nemici di Cristo rimarrebbero spezzate.
I santi di ogni tempo e categoria hanno speso la vita per la “salvezza” delle anime, senza risparmiarsi e senza badare a sacrifici e rinnegamenti. Con spirito di completa abnegazione hanno indirizzato i loro pensieri, le loro parole, le loro opere a questo altissimo fine. La nostra visione, però, è spesso assai diversa da quella di Dio, troppo spesso perdiamo di vista questi pensieri e queste aspirazioni per accarezzare il mondo con la brama spasmodica di quello che ci offre, alla ricerca del soddisfacimento delle nostre voglie e, in ultima analisi, del nostro “io” che gonfiamo e nutriamo più di quanto non nutriamo l’amore di Dio e del prossimo. Occorre scuotersi di dosso la polvere dei desideri mondani, della ricerca del piacere ad ogni costo, dell’autonomia spirituale che porta a trattare le cose di Dio e anche la sua volontà (enunciata nei Comandamenti, nei doveri di stato e nella “vocazione” specifica a cui destina ciascuno di noi) come un “complemento” aggiuntivo e non necessario alla nostra vita, che scorre secondo uno schema da noi progettato e in cui, troppo spesso, non entra per nulla Dio né i suoi desideri.
La meditazione sulla Passione di Cristo, in questo tempo privilegiato, dovrebbe indirizzarci alla costruzione di un programma spirituale ben diverso dagli effimeri e illusori scenari di vita cristiana in cui vorremmo tenere congiunti – cosa impossibile! – il servizio a due padroni tra loro inconciliabili: Dio e il mondo, Dio e la carne corrotta, Dio e satana! Afferma inequivocabilmente san Giacomo: «Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. O forse pensate che invano la Scrittura dichiari: Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi?» (Gc 4,4-5).
Entrare nella logica dell’amore-sacrificio, dell’amore vero che si sostanzia in una vita all’insegna del credere, dello sperare, dell’adorare, del riparare, dell’obbedire, del rinnegarsi per andare “dietro al Signore” portando la croce (cf Mt 16,24) appare cosa dura, certo. Si tratta della “porta stretta” in opposizione alla “porta larga” (cf Mt 7,13-14) di cui ci parla il Maestro nel Vangelo. È, però, indubitabilmente la via della vita, della vera pace e felicità che né il demonio né il mondo sanno né possono dare. 
La scelta compete a noi, soltanto a noi. Scegliamo, orsù, la via dell’amore e mettiamoci sulla strada che il Signore Gesù ci ha mostrato con il suo divino esempio e ci ha additato con il suo insegnamento. 

Casa Mariana Editrice
Sede Legale
Via dell'Immacolata, 4
83040 Frigento (AV)
Proprietario: Associazione CME Il Settimanale di Padre Pio. Tutti i diritti sono riservati. Credits