RISPOSTA AI LETTORI
Perché le Messe per i defunti si pagano?
dal Numero 42 del 13 novembre 2022

Gent.mi Padri, da poco è morta mia moglie, in modo tanto veloce quanto inaspettato. Stiamo provvedendo a far celebrare regolarmente delle Messe, così come si usa. Mi è stata molto raccomandata la Messa gregoriana, che, se ho ben capito, è una serie di 30 Messe celebrate per l’anima. Mi è stato detto che è molto potente, ma c’è da considerare anche che “costa” parecchio. Ecco, questa è una cosa che non riesco proprio a capire. Perché le Messe si pagano? È possibile che il defunto di persone che possono permettersi di sborsare tanti soldi abbia la speranza di scontare più presto il suo purgatorio, mentre i parenti defunti di povera gente sono destinati a restare in purgatorio solo perché non ci si può permettere di pagare tutti questi soldi? Io credo che le Messe per i defunti dovrebbero essere gratuite. Potreste sciogliermi questo dilemma? Ringrazio sentitamente.      (Mauro)

Caro Mauro, ci uniamo al suo dolore e alla preghiera per sua moglie.

Diciamo anzitutto che il compenso che si dà al sacerdote per la celebrazione della Messa non è una mercede con cui acquistare i frutti spirituali del Santo Sacrificio, che sono incalcolabili: è piuttosto un’elemosina che si dà al celebrante per concorrere al suo onesto sostentamento. Come dice san Paolo: “Chi serve all’altare ha diritto di vivere dell’altare” (cf 1Cor 9,13-14). Questo segno, inoltre, manifesta come la Santa Messa è un mezzo straordinario di grazia, e non è come le altre forme di preghiera e di intercessione. Ciò non toglie che il celebrante possa celebrare delle Messe in favore di chi non ha la possibilità di lasciare l’offerta senza voler ricevere alcun compenso.

Nel caso di sua moglie potrei suggerirle di fare una colletta tra parenti e amici, sapendo che il sacrificio che si fa in carità per il suffragio di qualche caro è un sacrificio che si unisce a quello di Cristo che si offre nella Santa Messa. L’offerta del povero, seppur meno consistente di quella del ricco – dice san Tommaso d’Aquino –, ha un valore più grande perché si unisce al sacrifico di Cristo con un maggiore sacrificio personale.

Il fatto che la celebrazione delle Messe gre­­­­go­­riane comporti in generale un’elemosi­­na più consistente, è dovuta all’onere particolare con cui il celebrante si impegna a celebrare per 30 giorni consecutivi per un solo identico defunto, non avendo la possibilità di accettare l’offerta di altre intenzioni. Però – come già detto – è anche vero che con quest’offerta più consistente ci si unisce con un sacrificio maggiore al Sacrificio di Cristo.

Quanto alla storia della pia pratica delle Messe gregoriane essa ebbe inizio con san Gregorio Magno, papa, il quale nei suoi dialoghi narra dell’ordine che aveva dato, non senza evidentemente un’illuminazione dall’Alto, che fosse celebrata una Messa per 30 giorni consecutivi in suffragio dell’anima di un certo monaco di nome Giusto, del quale erano state riscontare alcune irregolarità nell’uso della povertà monastica, tanto che era stato seppellito fuori dal cimitero dei monaci. Così racconta san Gregorio: «Erano ormai passati 30 giorni dalla morte di Giusto e io cominciai ad avere compassione di lui [...], mi chiedevo se vi fosse qualche mezzo per liberarlo.

Allora, chiamato il priore del nostro monastero, Prezioso, accorato gli dissi: “Da tanto tem­­po, ormai, quel nostro fratello morto è nel tormento del fuoco. Gli dobbiamo un atto di carità [...]. Va’, dunque, e da oggi, per 30 giorni consecutivi, abbi cura di offrire per lui il Santo Sacrificio” (Dialoghi IV, 57, 14)». Terminate che furono le 30 Messe, san Gregorio vide l’anima del monaco Giusto entrare in Paradiso. Da qui il nome di “Messe gregoriane”.

A conferma del valore di queste Messe, nella vita di san Vincenzo Ferrer leggiamo questo episodio che riguarda una delle sue sorelle, donna Francesca Ferrer. Ella era vissuta in concetto di donna onestissima conosciuta da tutta Valenza, portava anche da maritata la veste di terziaria francescana. Era morta a Valenza mentre san Vincenzo era lontano nell’esercizio del suo apostolato. La sua morte non era stata rivelata al Santo, a differenza di quanto era avvenuto per i genitori e gli altri parenti. Avendo appreso la notizia al suo ritorno a Valenza, volle celebrare la Santa Messa in suffragio nella chiesa di San Domenico.

Vincenzo era appena giunto all’offertorio della Messa quando gli apparve una donna cinta di fiamme, la quale teneva nelle braccia un bambino moro. Domandatole chi fosse, gli fu risposto che era l’anima di sua sorella Francesca, condannata dalla divina giustizia alle fiamme del Purgatorio a causa delle sue colpe. Avendole il Santo chiesto cosa mai fosse successo nella sua vita da meritare una simile pena, ella gli rivelò che suo marito Bartolomeo, essendosi allontanato da Valenza in un viaggio oltre mare per i suoi interessi mercantili, aveva lasciato in casa, tra l’altra servitù, uno schiavo moro della Guinea, che gli faceva anche da maggiordomo. Questi, approfittando dell’assenza del marito e del fatto che un giorno ella era sola in casa, l’assalì con un’arma alla mano pretendendo che acconsentisse alle sue impure voglie. Ella non ebbe la forza e il coraggio di perdere la vita, e preferì acconsentire al peccato, venendo meno ai suoi impegni di cristiana e di sposa.

Il fatto ebbe conseguenze gravissime: es­­sendo infatti rimasta incinta, procurò in tutti i modi di abortire, e vi riuscì; e per vendicarsi dell’insolente servitore, gli propinò un veleno così potente che quello mo­­rì all’istante.

Non ebbe il coraggio di confessare ai sa­­cerdoti di Valenza, dai quali era conosciuta e stimata, quanto aveva commesso; e d’altra parte non poteva lasciare di ricevere i sacramenti della Penitenza e della Comunione senza dare nell’occhio. Pressata e condizionata in tal modo, continuò a confessarsi e a comunicarsi sacrilegamente per molto tempo.

Avvenne che un giorno, stando alla finestra di casa, vide passare una persona in abito talare; la raggiunse, chiese chi fosse, e, avendo udito che era un sacerdote normanno che andava in pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella, lo pregò di ascoltare la sua confessione nella vicina chiesa di San Giuliano e quindi si confessò, contenta di liberarsi da così enormi pesi che gravavano sulla sua coscienza.

Purtroppo non era tutto finito. Quello non era veramente un sacerdote, ma era un demonio, apparsole in quelle sembianze per deluderla maggiormente con una invalida Confessione. Lei comunque non venne a sapere della cosa, e la misericordia divina fu più grande dell’astuzia diabolica, poiché, essendo venuta a morire tre giorni dopo quella Confessione, ebbe una vera contrizione delle sue colpe, e grazie a ciò fu salva; ma la giustizia divina volle che ella restasse in Purgatorio sino al giorno del Giudizio.

Avendo san Vincenzo ascoltato dalla so­­rella tutto questo, le chiese se poteva fare qual­­cosa per abbreviare quelle sue pene; e lei gli rispose che avrebbe potuto aiutarla celebrando le Sante Messe di san Gregorio (le Messe gregoriane). Ma Vincenzo non sapeva di cosa si trattasse, poiché in quel tempo, in Spagna, non si parlava di tali Messe, ma di quelle di sant’Amatore, alle quali lo stesso san Vincenzo si riferisce talvolta nei suoi sermoni. Vincenzo pregò e digiunò a lungo chiedendo al Signore di essere illuminato, finché un angelo del Signore gli portò una pergamena con tutte le indicazioni necessarie per celebrare le Messe gregoriane. Egli subito attuò il proposito di suffragare nel modo indicato la sorella Francesca, ed effettivamente, dopo la celebrazione dell’ultima Messa, gli apparve l’anima di lei, non più cinta di fiamme ma coronata di gloria, con una ghirlanda di fiori sul capo e un giglio nella destra, e saliva in Paradiso accompagnata dagli angeli.

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