SANTO NATALE
Fissando la Stella. Il Natale del Beato Charles de Foucauld
dal Numero 50 del 25 dicembre 2016
di Carlo Codega

Con lo sguardo fisso verso Betlemme, il beato Charles de Foucauld ha seguito il Verbo Incarnato nella Sua terra e nella Sua vita, riproducendo in sé i tratti del Maestro amato tanto appassionatamente, fino al martirio.

L’intera parabola della meravigliosa vita del beato Charles de Foucauld (1858-1916) – di cui quest’anno ricorre il centenario dal martirio – è paragonabile a un viaggio, uno di quegli avventurosi viaggi che l’aristocratico francese amava condurre in giovinezza e che continuò a praticare fino alla fine della vita, persino nella condizione di eremita contemplativo. Un viaggio che a ben vedere è come l’evangelico viaggio dei Re Magi che, seguendo la misteriosa stella cometa apparsa nel cielo, si lasciarono guidare da questo segno naturale verso la soprannaturale nascita del Verbo Incarnato a Betlemme. Se i Magi d’Oriente si misero alla sequela di questa stella apparsa nella volta celeste, il giovane Charles si trovò invece a seguire una “stella”, altrettanto brillante e altrettanto misteriosa, che apparve nel firmamento della sua coscienza, come impulso a ricercare qualcosa di più grande e a staccarsi dalla mediocrità di un’esistenza mondana dissipata.

Alla ricerca di un ideale

Quest’impulso interiore è ben noto alla Teologia cattolica come “Grazia attuale”, ovvero un aiuto dell’Onnipotente, dato a qualsiasi uomo, a migliorare la propria esistenza e a volgere i suoi passi – più o meno lontani da Lui – sul sentiero che porta verso la conversione. Questa misteriosa pedagogia divina, che invita senza forzare e rispetta il bisogno di mettere gradualmente un passo dopo l’altro, in Charles si manifestò come il desiderio di staccarsi da quella vita viziosa che aveva trovato nei ranghi dell’esercito francese il suo habitat ideale – o meglio la sua sordida tana – nel quale sviluppare i vizi più abietti della natura umana, come la gola, la lussuria e la pigrizia. Si accese nell’anima del giovane ufficiale francese la magnanimità, il desiderio di cose grandi ed eroiche, la sete di conoscenze profonde, il bisogno di imprese e di avventure che lo portarono a dimettersi dall’esercito e affrontare un celebre viaggio in Marocco (1882-’86).
Per quanto ancora tutto volto alla gloria di questo mondo, questo desiderio di staccarsi dalle piccinerie della vita mondana per ricercare le cose grandi l’avrebbe di lì a poco condotto misteriosamente a trovarsi a cospetto del Grande che si è fatto piccino nella grotta di Betlemme. Infatti, di ritorno da quest’impresa – che lo aveva reso celebre presso l’opinione pubblica e la comunità scientifica francese –, il focoso esploratore si accorse che quella “stella” che lo aveva condotto sulle strade del Nordafrica, ora lo spingeva a entrare in se stesso a ricercare nel profondo della sua anima la mèta del suo cammino esistenziale: «Ho iniziato ad andare in chiesa, senza essere credente, non mi trovavo bene se non in quel luogo e vi trascorrevo lunghe ore continuando a ripetere una strana preghiera: “Mio Dio, se esisti, fa che io Ti conosca!”».
L’Abbé Huvelin, alle cui mani prudenti il giovane si era affidato, seppe poi saggiamente indirizzare la sua sete di conoscenza e la sua voglia di esplorare verso la Terra Santa. Nel 1888 Charles intraprese un lungo pellegrinaggio in Terra Santa che modificò completamente la sua visione del mondo. Se a Nazareth poté intuire la santa quotidianità della vita di Gesù, a Betlemme sperimentò la profondità e la bellezza dell’Incarnazione, che dilata il cuore dell’uomo in un amore appassionato verso il Creatore: «Dopo aver trascorso il Natale del 1888 a Betlemme, aver ascoltato la Messa di mezzanotte e ricevuto la Comunione nella Santa Grotta, dopo due o tre giorni sono ritornato a Gerusalemme. La dolcezza che ho provato a pregare in quella grotta, dove erano risuonate le voci di Gesù, Maria e Giuseppe è stata indicibile». Nella mente dell’aristocratico francese una sola breve parola si stampò: Gesù, era questa la mèta del suo viaggio, era a Lui che la cometa lo stava misteriosamente conducendo – come già 1900 anni prima per i Re Magi – per quanto i dettagli dell’itinerario non fossero ancora così chiari.
La volontà di fare propria la vita del Verbo Incarnato lo spinse a scegliere di abbracciare la vita religiosa: il suo santo desiderio di austerità e la guida di Don Huvelin, lo condussero nel 1890 alla trappa di Notre Dame des Neiges, dove fu accolto col nome di Fra’ Marie-Albéric. «Il Vangelo – scrisse il Beato – mi mostrò che il primo comandamento è amare Dio con tutto il cuore e che tutto va racchiuso nell’amore; ognuno sa che l’amore ha come primo effetto l’imitazione. Mi sembrava che niente rappresentasse meglio questa vita che l’abbazia trappista».

L’umiltà e la povertà di Betlemme

Quella che sembrava la mèta del suo viaggio si rivelò invece solo una tappa: la cometa interiore ritornò a sorgere nel firmamento della coscienza del Beato, per spronarlo di nuovo a mettersi in cammino. Nonostante avesse già preso dimora nella più austera trappa di Akbes, in Siria, Fratel Marie-Albéric si sentiva chiamato a una più perfetta conformità con il Salvatore, una conformità a cui non bastava l’imitazione di Gesù della vita religiosa trappista, ma che cercava l’identità persino nei particolari più avvilenti della vita di Nostro Signore: «Noi siamo poveri agli occhi dei ricchi, ma non poveri come lo era Nostro Signore, non poveri come lo ero io in Marocco, non poveri come lo era San Francesco [...]. Amo Nostro Signore Gesù Cristo e non posso sopportare di condurre una vita diversa dalla Sua. Non voglio attraversare la vita in prima classe, quando Colui che amo l’ha attraversata in ultima classe». Ecco così che dopo sette anni di vita trappista (1890-’97), Fratel Charles di Gesù – secondo il nuovo nome assunto – lasciò la vita monastica per sperimentare una vita eremitica secondo la sua ispirazione interiore: naturalmente i suoi passi non poterono che dirigersi verso la Terra Santa, a Nazareth, dove divenne il giardiniere del Monastero delle Clarisse, potendo nel contempo vivere una vita altamente contemplativa e penitente.
Se Nazareth, luogo della vita quotidiana e laboriosa di Nostro Signore per trent’anni, rimase sempre la fonte principale della sua ispirazione spirituale, alla Grotta di Betlemme Fratel Charles volgeva spesso gli occhi dell’anima: «Siamo ancora nel tempo di Natale – scriveva al suo vecchio Abate –. Col corpo sono a Nazareth [...], ma con lo spirito è più di un mese che sono a Betlem; e dunque vicino al presepe, tra Maria e Giuseppe». Dal Presepe l’Eremita nazaretano poteva trarre un programma di vita complementare a quello che prendeva ispirazione alla faticosa e umile esistenza quotidiana di Nazareth: «Abbracciare l’umiltà, la povertà, la rinunzia, l’abiezione, la solitudine, la sofferenza con Gesù nel suo presepio; non tenere in nessun conto la grandezza umana, l’elevatezza, la stima degli uomini. Per me, cercare sempre l’ultimo degli ultimi posti, disporre la mia vita in modo da essere l’ultimo, il più disprezzato degli uomini», proprio come Gesù, nato in una stalla. Betlemme rimase per tutta la sua vita d’altronde un modello di confronto continuo col quale assicurarsi che veramente il suo stile riproducesse il modello sublime del Verbo Incarnato, cosicché la fecondità soprannaturale dell’Incarnazione continuasse attraverso la sua esistenza: l’umiltà e la povertà, «i mezzi di cui egli si è servito nel Presepio», divengono «le nostre armi» che ci assicurano «di trovarci nel giusto perché non siamo più noi che viviamo, ma Lui che vive in noi, e i nostri atti non sono più i nostri umani e miserabili atti, ma i suoi, divinamente efficaci».
La scelta della povertà materiale per far trionfare agli occhi degli uomini la ricchezza spirituale di Dio, che è la sua vera gloria, impedì a Charles di fermarsi a Nazareth: ricevuta l’Ordinazione sacerdotale in Francia nel 1900, l’Eremita francese volle, per la gloria di Dio, fondare una comunità basata sullo stile di vita sacrificato del Verbo Incarnato, dedita alla contemplazione ma anche all’espansione del Regno del Sacro Cuore sulla terra. Accogliendo l’invito di Mons. Guérin, Vescovo del Sahara, Fratel Charles accettò di stabilire un eremo a Béni Abbes, nel bel mezzo dell’arido deserto, in territorio algerino. La scelta di questo luogo – o meglio di «queste rocce simili a quelle di Betlemme e di Nazareth», come diceva lui stesso – rispondeva peraltro alla stessa preferenza di Gesù che per nascere non aveva scelto di essere attorniato da ricchi e potenti ma dai più poveri pastori della Giudea, tanto simili a questi seminomadi di buon cuore in mezzo a cui il Beato ebbe a trovarsi: «Gesù sceglie lui stesso i suoi adoratori... Attrae a sé con la voce degli angeli i pastori, che per primi vuole vederseli intorno, dopo Maria e Giuseppe. Per genitori ha scelto due poveri operai; per primi adoratori, sceglie poveri pastori... Sempre la stessa abiezione, sempre lo stesso amore della povertà e dei poveri. [...]. Che balsamo hai messo sino alla fine dei secoli nel cuore dei poveri, dei piccoli, dei disprezzati dal mondo, mostrando loro già dalla tua nascita ch’essi sono i tuoi privilegiati, i tuoi favoriti, i primi chiamati: quelli che chiami sempre intorno a Te, che hai voluto essere uno di loro ed essere fin dalla tua culla e per tutta la vita circondato da essi».

Con Maria e Giuseppe di fronte al Verbo Incarnato

Il vero cercatore di Dio non pretende però di governare la sua “stella cometa”, ma si lascia anzi guidare pacificamente da essa, seguendo i suoi ritmi, i suoi occultamenti, le sue riprese e ricomparse: questa volta la stella cometa del novello re magio tornò a sorgere nel 1904 attraverso la voce di Mons. Guérin, che, portando visita all’Eremita, gli raccontò la triste situazione dei Tuareg al Sud, tra i quali non era passato da anni alcun missionario. Più povertà, più squallore, più fatica, più pericoli furono assicurazioni sufficienti a convincere il cuore evangelico di Fratel Charles a muovere i suoi passi verso Sud, stabilendosi a Tamanrasset, presso le alture dell’Hoggar in mezzo al misterioso popolo nomade dei Tuareg. In questo luogo, dimenticato dagli uomini e persino dai missionari, avrebbe trascorso ben dodici anni, dodici anni di lavoro faticoso e di servizio al prossimo: lavoro manuale sacrificato, testimonianza di vita evangelica, assistenza morale ed educativa a questo popolo arretrato, traduzione dei Vangeli nella lingua tuareg... il tutto nel più puro spirito di servizio a Dio e al prossimo. Nonostante il sudore e le lacrime versate però i frutti apostolici tardarono a venire, anzi, almeno esteriormente, non vennero mai, come lo stesso Beato ebbe a confessare nel 1914: «Domani, dieci anni da quando celebro la Messa nell’eremitaggio di Tamanrasset! E non un solo convertito! Bisogna pregare, lavorare e avere pazienza». Poco importava questa mancanza di frutti all’anima contemplativa di Fratel Charles che aveva scelto questo posto deserto per «essere solo con Gesù, solo per Gesù».
Il vero conforto quotidiano, in quel piccolo romitorio che tanto assomigliava alla Grotta di Betlemme, era la Santa Messa, alimento della sua anima mistica: la Santa Messa – come scrive più volte nelle sue lettere – era per Fratel Charles il “Natale di ogni giorno”, il “piccolo Natale quotidiano che rende la terra un cielo», perché faceva rinascere l’Emmanuele, il Dio con noi, in quella terra infedele. Il Contemplativo che spendeva ore davanti all’Eucaristia trovò sempre nel Presepe di Betlemme una fonte di meditazione: il mistero del Natale fu per lui un’oasi di contemplazione in una vita di sofferenze e di impegni caritativi verso il prossimo, un mistero davanti al quale la ragione doveva tacere, lasciando posto al silenzio della preghiera. «Le ore scorrono – scriveva in riferimento al Natale – e l’istante fissato da Dio da tutta l’eternità è arrivato. Non sarebbe meglio tacere che parlare? Oh mio Dio, insegnaci il segreto della silenziosa contemplazione, o piuttosto faccene la grazia. Facci la grazia, o Gesù, di contemplarti ed amarti in un profondo silenzio interiore».
D’altronde questo atteggiamento di amorosa adorazione del Verbo Incarnato gli era suggerito da Maria Santissima e san Giuseppe che, nella Grotta di Betlemme, erano stati i primi adoratori del Dio fattosi bambino per nostro amore: «Che cosa fate, in questo momento, tutti e due? Voi adorate, raccolti, silenziosi, vi perdete in una contemplazione senza fine, coprendo, baciando con lo sguardo colui che avete, poco fa, adorato [...]. O santi genitori! La vostra notte e ormai tutta la vostra vita sono divise in due occupazioni, l’adorazione immobile e silenziosa, e le carezze, le cure sollecite e devote e tenerissime... [...]. Fate che la mia vita si conformi alla vostra, o genitori benedetti, che trascorra come la vostra ad adorare Gesù o ad agire per Lui, sempre sprofondati nel suo amore in Lui, con Lui e per Lui».

Betlemme e Gerusalemme

La cometa del beato Charles però non era destinata a fermarsi sulla Grotta di Betlemme – come quella dei suoi illustri predecessori evangelici – facendo corona alla scena della Natività, ma a continuare sulla stessa strada che Nostro Signore aveva percorso, su su, attraverso Nazareth, sino al Calvario e al Sepolcro. Lo stesso Charles, ancora giovane eremita, aveva intuito la singolare unità del mistero dell’Incarnazione con quello della Passione e Morte di Nostro Signore: «Mio caro padre – scriveva a un trappista –, questi sono giorni di benedizione e di felicità, ma anche di dolore, perché se il Natale è l’inizio delle nostre gioie, è anche l’inizio dei dolori di Gesù. Natale è a soli otto giorni dalla circoncisione. Betlemme è a soli otto chilometri da Gerusalemme». In un solo giorno di cammino il pellegrino in Terra Santa può lasciarsi alle spalle la candida poesia di Betlemme per trovarsi dinanzi alla violenta cornice vermiglia del Calvario e del Sepolcro a Gerusalemme. L’unità tra le due scene, tanto differenti tra loro, si trova però nel Sacro Cuoricino di Gesù Bambino che già a Betlemme «provava quel dolore immenso, che è stato il suo destino lungo tutta la sua vita mortale, alla vista dei peccati, delle ingratitudini, della dannazione di tante anime», portando in sé quelle stesse disposizioni interiori che lo avrebbero condotto a compiere la Volontà del Padre con la morte in Croce per la nostra salvezza.
Le vere anime mistiche, a imitazione di Nostro Signore, non si possono attardare nel dolce idillio di Betlemme ma vogliono seguire le orme sanguinanti del Redentore, conformando il loro cuore al Sacro Cuore di Gesù, e offrendo una spalla amica per portare la sua pesante Croce e un cuore puro per confortare le sue afflizioni interiori. Forse proprio a questo pensava Fratel Charles all’inizio dell’Avvento del 1916 – il giorno 1° dicembre – quando, proprio mentre si preparava all’imminente solennità di Natale, un gruppo di violenti predoni del deserto, facendo irruzione nel suo romitorio, lo lasciarono steso al suolo, con un proiettile conficcato nel corpo e in mezzo a una pozza di sangue. Il cuore di Charles, educato alla scuola di Betlemme e Nazareth, aveva ottenuto la gloria del Calvario, adempiendo quel proposito spirituale che molti anni prima aveva messo per iscritto: «Silenziosamente, nascostamente come Lui, oscuramente, come Lui, passare sconosciuto sulla terra come un viaggiatore nella notte, poveramente, laboriosamente, umilmente, dolcemente, facendo il bene come Lui, disarmato e muto dinanzi all’ingiustizia come Lui; lasciandomi, come l’Agnello divino, tosare ed immolare senza far resistenza né parlare; imitando in tutto Gesù a Nazareth e Gesù sulla Croce».

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