Il torchio mistico è una delle più caratteristiche rappresentazioni della Passione. In esso si trovano molteplici significati, come si evince dall’analisi del dipinto che qui proponiamo. La crudezza della scena viene come superata dalla dolce pazienza di Cristo.

«Ho pigiato al torchio da solo e nessun uomo del popolo era con me».
La citazione di Isaia (63,3) posta nella cornice alla base della tela che analizzeremo è il principale motivo scritturistico a fondamento della raffigurazione del torchio mistico. In questo modello iconografico, poi variamente modificato, è rappresentato Cristo che viene schiacciato sotto l’asse orizzontale di un torchio o, più comunemente, da una croce, e il suo sangue si raccoglie in un tino.
Il torchio mistico ha rappresentato, dal Medioevo, un ottimo mezzo visivo per la catechesi. Se si volesse trovare una originaria iconografia del torchio mistico la potremmo trovare nell’Hortus deliciarum, manoscritto scritto e miniato nel monastero alsaziano di Hohenbourg, nel quale troviamo – come un commento attraverso immagini alla parabola dei vignaioli omicidi – Cristo che pigia l’uva e da quanto cola si abbeverano il Papa, i sacerdoti, i monaci.
Dal XIV secolo non fu più l’uva il prodotto da pigiare, ma Cristo stesso, e l’estrema crudezza della scena facilmente accostabile al tema eucaristico riuscì a riassumere la spiritualità del tempo che dalle Fiandre estese in tutta Europa la devozione alle reliquie del Preziosissimo Sangue. Ma la diffusione iconografica più grande avvenne nel Cinquecento in quanto la crudezza dell’immagine, la passionalità amorosa, la teologia del sangue e la spiritualità del sacrificio si prestavano molto bene come sintesi teologica del mistero della Santa Messa. In Italia, una delle più antiche raffigurazioni del torchio mistico la troviamo a Milano in Santa Maria Incoronata, in un affresco della scuola del Borgognone del 1480 circa.
Il dipinto che ora contempliamo è un olio su tela firmato da Ernst Van Schayck alla fine del XVI secolo e custodito a Matelica nella chiesa di Sant’Agostino. La composizione ha chiaramente come protagonista centrale Cristo che dalle ferite aperte fa zampillare abbondante Sangue all’interno del tino che due angeli in abiti diaconali raccolgono in un grande calice e lo contemplano. A girare la vite del torchio e a premere la Croce su Cristo vi è in alto a destra Dio Padre affacciato dal cielo e con sguardo basso coronato da un nimbo di luce a triangolo. Poggiata sulla Croce, quasi come leggerissimo peso, la colomba dello Spirito Santo ad ali spiegate circondata da testoline di cherubini. In basso a destra Maria Addolorata compartecipe delle sofferenze del Figlio, trafitta da una grande spada come le era stato profetizzato dall’anziano Simeone, mentre unisce, qual Corredentrice, in modo spirituale il suo sangue al Sangue redentore. Sul lato sinistro san Giovanni Battista in ginocchio indica il Cristo e dietro di lui, in piedi, san Giovanni evangelista tende il collo verso l’alto per fissare i suoi occhi in quelli del Cristo sofferente. A fare da sfondo a tutta la sacra scena vi è una città, la città ideale, la Gerusalemme celeste.
La scena è dominata da una serena sofferenza, da un dolce dolore, da sguardi amorosi e pazienti e questo quasi in contrasto con la truculenza della scena; tuttavia sembra che tutti siano serenamente consapevoli di compiere la volontà del Padre compiendola con serenità e pazienza pur nel dolore.
Concludiamo con un una strofa dell’inno del Santo Sacramento di Paul Claudel contenuto in Corona benignitatis Dei (1908):
O pane degli angeli, quante volte
Tu hai sofferto la macina e la croce,
prima che io ricevessi a mia volta
da un cuore fuso di tenerezza e di spavento
questa carne che Tu hai ricevuto da Maria.