La storia di questo Beato è simile a quella dei più bei martiri perseguitati dal Comunismo sovietico. La sua identità sacerdotale e attività pastorale non conobbe cedimenti, nonostante i ripetuti internamenti nei lager. Solo la morte, avvenuta il 3 dicembre 1974, arrestò lo zelo apostolico di Padre Ladislao...
Anima prudente come serpente e candida come colomba, Padre Ladislao fu un sacerdote secondo il Cuore di Cristo, dedicato fino alla fine alla sua missione che svolse ovunque la Provvidenza lo chiamò: nelle parrocchie, al confino, nei campi di concentramento, durante il ferreo regime sovietico. Dei suoi 43 anni di vita sacerdotale, ne trascorse in totale 13 tra prigioni e lager, senza che il suo zelo apostolico ne venisse fiaccato.
Lo scorso 11 settembre è stato proclamato Beato con una cerimonia solenne presieduta dal Card. Angelo Amato, delegato di Papa Francesco, che si è svolta nella nuova cattedrale della “Madonna di Fatima – Madre di tutti i Popoli” a Karaganda. Qui, dal 2008, si trovano le sue spoglie, circondate dalla preghiera e dalla venerazione dei fedeli che in gran numero accorrono dal loro Apostolo, realizzando così il desiderio del Beato: che anche la sua tomba divenisse, come tutta la sua vita, occasione di apostolato.
A definire Padre Ladislao “Apostolo del Kazakistan” fu l’allora Vescovo Karol Wojtyla che lo conobbe di persona e apprese da lui con grande interesse del suo apostolato in Kazakistan.
«Quanto ha sofferto quest’uomo! – ha detto anche Papa Francesco durante l’Angelus, ricordando Padre Ladislao nel giorno della sua Beatificazione –. Nella sua vita ha dimostrato sempre grande amore ai più deboli e bisognosi e la sua testimonianza appare come un condensato delle opere di misericordia spirituali e corporali».
Nato nell’odierna Ucraina il 22 dicembre 1904, trascorse qui gli anni dell’infanzia e prima giovinezza, caratterizzati dalla grande serenità della vita familiare, ove respirò un’atmosfera di bontà, religiosità e rispetto reciproco, che incise e plasmò l’anima del Beato.
Fin da giovinetto, emersero in lui le qualità di un’intelligenza sveglia e un’inclinazione alla preghiera, con una predilezione per il Rosario che sarà l’arma segreta di ogni suo combattimento e che pregherà con devozione fin sul letto di morte.
Completati gli studi liceali, s’iscrisse parallelamente alle facoltà di Giurisprudenza di Jagellonica e di Scienze politiche in Polonia, dove si era trasferito con la famiglia per scampare ai bolscevichi. Le terminò con successo e nel frattempo lavorò nella redazione della rivista Craz (Il tempo).
Personalità ricca di doti umane e intellettuali, era circondato da molti amici e uno di questi, entrato in seminario ed entusiasta della vita di grande letizia che vi menava, fu lo strumento scelto da Dio per attirarlo alla vita sacerdotale. A 22 anni lo seguì in seminario e cominciò gli studi di Teologia edificando tutti con la sua vita devota ed esemplare.
Venne ordinato sacerdote il 28 giugno 1931 dal Cardinale Arcivescovo di Cracovia Adam Stefan Sapieha. Dopo un primo periodo di attività ministeriale nella regione polacca di Volinia dove si divise tra l’insegnamento in seminario, i ritiri parrocchiali e gli incarichi di direzione e collaborazione con varie riviste cattoliche, dal settembre 1939 è nominato parroco della Cattedrale di Luck. Qui svolge il proprio ministero con massima carità, e quando la città cade sotto il dominio sovietico, presta eroico conforto e soccorso ai polacchi condannati alla deportazione in Siberia, sollevando la gente con parole di speranza cristiana.
Per tale apostolato, il 22 giugno 1940 viene lui stesso incarcerato, e durante questa prima esperienza di prigionia accade ciò che lui stesso definisce un miracolo. Il 23 giugno 1941, con la rapida avanzata dell’esercito nazista, i sovietici in fuga iniziano a liquidare i prigionieri con una fucilazione di massa. Così il Padre Bukowinski ricorda l’accaduto: «Quando giacevo nel cortile della prigione sotto una grandine di pallottole, io ero sorprendentemente tranquillo. Tutta la mia vita, avevo allora 36 anni, si condensò in un solo istante. Impartivo anche l’assoluzione alle persone che giacevano vicine. La mia mente lavorava molto intensamente. Sperimentavo la fine del presente e il riflesso dell’eternità. Questa sensazione era indescrivibile e bellissima, non si può assolutamente dimenticare. Non so come sarebbe stato, se avessi provato il dolore delle ferite. Ma il mio corpo non provava alcun dolore. E l’anima in libertà si librava tra il presente e l’eterno, come non avevo mai provato fino a quel momento e dopo nella vita».
Padre Bukowinski per lungo tempo giacque privo di sensi sotto i cadaveri, fino a quando nella prigione arrivarono i tedeschi e lui riprese coscienza e si rialzò da sotto i corpi umani. Lasciò la prigione fisicamente debilitato, ma nonostante ciò tornò ad occupare il suo posto di parroco a Luck.
Quattro anni dopo, nel 1945, subì un secondo arresto da parte dell’armata rossa, assieme ad altri sacerdoti, e dopo un lungo, farisaico processo tutti furono condannati in contumacia come “spie del Vaticano” a 10 anni nei campi di lavoro forzato. Fu in questi anni di duro lavoro, prima nel campo di Czelabinsk in Siberia e poi nel campo di Žezkazgan (attuale Kazakistan), che il sacerdozio di Padre Bukowinski assunse i lineamenti della Passione di Cristo, dell’immolazione con Cristo per i fratelli, e invece di venire placato e mortificato, si allargò fecondo verso le anime dei prigionieri, sfruttando ogni occasione di apostolato. Nessun astio, rancore o invettive per i nemici in lui, anzi, le testimonianze raccontano che li benediceva, come gli aveva insegnato Gesù nel Vangelo. Dopo 10 ore di lavoro ininterrotto nelle miniere di rame, la notte mentre tutti dormivano raccoglieva le forze per celebrare la Santa Messa, inginocchiandosi davanti a una panca, rivestito di una tela ruvida al posto dei paramenti sacerdotali. Il carattere sacerdotale impresso in lui il giorno della sua Ordinazione è come un marchio di fuoco che brucia e consuma e non si può cancellare: così trova il tempo e il modo di confessare, comunicare e istruire con brevi conferenze spirituali i suoi compagni di sventura, e far visita agli ammalati nell’ospedale del gulag. In questo periodo la sua vista soprannaturale si affina e irrobustisce tanto da farlo esclamare: «La Provvidenza agisce talvolta anche attraverso gli atei, che mi hanno mandato là dove serviva un prete».
Il 10 agosto 1954 Padre Ladislao viene liberato per buona condotta e mandato al confino a Karaganda, dove lavora come guardiano in un cantiere edilizio e contemporaneamente, in segreto, svolge il lavoro pastorale. Ora ha 51 anni, potrebbe ritornare in Polonia, sua patria storica, per trovare pace e tranquillità ma non è questo che cerca. Al contrario, prende una decisione inaudita, chiede la cittadinanza sovietica per rimanere fedelmente vicino ai suoi cristiani ed essere così più libero di muoversi in loro aiuto. Un giorno, mentre celebra la Santa Messa, arriva la milizia sovietica, ordinandogli perentoriamente di smettere. I militari se ne vanno e Padre Ladislao si rivolge ai fedeli in questi termini: «Chi vuole uscire esca, ma io continuerò». Neppure uno uscì.
Ottenuto il passaporto si licenzia dal lavoro di guardiano per dedicarsi a tempo pieno, ma sempre in incognito, al suo sacerdozio. Hanno così inizio i suoi “viaggi missionari” per tutto il Kazakistan e l’Asia centrale, che si spinsero fino al Tagikistan, per visitare comunità cristiane di deportati bisognose di “vita sacramentale”. Durante i suoi lunghi viaggi prega, come ha sempre pregato, con il Rosario che gli corre in moto perpetuo tra le mani.
Quando un giorno arrivò nei dintorni di Alma-Ata dai deportati polacchi, erano 20 anni che non vedevano un sacerdote. Entrato nel villaggio – annota il Padre – «mi ha salutato con brevi parole, in presenza delle persone che si erano radunate, il “patriarca” del luogo signor Stanislaw Levitski. Fu, forse, il più emozionante discorso, rivolto a me in tutta la mia vita. Il sig. Levitski pronunciò queste parole: “Ci hanno condotto su queste montagne, ci hanno abbandonato qui e tutti si sono dimenticati di noi. Nessuno si ricordava più di noi. Il padre spirituale è venuto da noi, da noi così orfani, da noi così orfani”. Piangeva questo dignitoso “patriarca”, piangeva tutta la gente radunata, piangeva anche il padre insieme a loro. Ma queste erano lacrime piene di bontà».
L’ultimo viaggio missionario all’Est, a Semipalatinsk, fu interrotto dall’intervento della polizia; di nuovo arrestato per la sua attività religiosa e di nuovo internato in un campo di lavoro forzato, a Czuna. Dopo la liberazione, Padre Ladislao tornò a Karaganda e insieme al Vescovo greco-cattolico Aleksandr Chira fondò in Kazakistan il Terz’Ordine Francescano. Dopo quasi trent’anni di peregrinazioni fece ritorno in patria, in Polonia, per curare la salute troppo indebolita. Ma anche qui, non si stancava di ribadire che un sacerdote, anche se malato, deve comunque preoccuparsi non di sé ma delle anime. Nonostante i dolori per le gravi condizioni di salute che gli facevano presentire la fine, conservava la letizia e la tranquillità dello spirito e mostrava vivo interesse per tutto ciò che accadeva. Continuava a celebrare ogni giorno la Santa Messa e a tenere l’omelia.
Tornato per l’ultima volta in Kazakistan, Padre Ladislao lasciò questa terra il 3 dicembre 1974, rimanendo vigile e cosciente fino all’ultimo istante e in interrotta preghiera, morendo con il Rosario tra le mani.
La notizia della sua morte si diffuse rapida e suscitò un dolore generale. Ai funerali, nonostante il gelo intenso, parteciparono migliaia di persone, venute per accompagnare nel suo ultimo viaggio l’“Apostolo del Kazakistan”, come lo avevano definito.
Ogni anima santa si distingue per una spiritualità particolare propria, viene da chiedersi quale sia stata la spiritualità di Padre Ladislao: egli ha fatto propria la spiritualità della Chiesa, una spiritualità dunque universale che consiste nella salvezza che ci viene dalla Croce di Gesù e quindi dal sacerdozio, perché Nostro Signore ci salva attraverso il suo Sacerdozio e nell’atto sacerdotale, che è la Croce, vale a dire la Santa Messa.
La Santa Messa celebrata da lui ogni mattina in profonda partecipazione con Cristo e vissuta durante il giorno e per tutta una vita, si potrebbe dire, sulla propria pelle, è stata il cuore pulsante della sua carità eroica.