SPIRITUALITÀ
I Santi e il senso del peccato
dal Numero 9 del 5 marzo 2017
di Claudia Del Valle

I Santi sono i veri modelli da seguire in questo tempo di Quaresima che, più di qualsiasi altro tempo liturgico, vuole metterci in contatto con la realtà dei nostri peccati e della Redenzione operata da Cristo.

Ben consapevole della sproporzione infinita che esiste fra la propria angusta povertà e la santità infinita di Dio, ogni anima seriamente impegnata nel cammino spirituale si caratterizza per un profondo senso del peccato. Per questo i Santi, pur nella loro innocenza, si dichiaravano i più grandi peccatori. Essi comprendevano di essere dei “redenti”, “riabilitati” alla Grazia solo in virtù del Sangue di Cristo. Tali sentimenti e riflessioni debbono essere fatte proprie da ogni Cristiano, soprattutto nel tempo quaresimale che ha ora inizio. A tale scopo, ecco una interessante riflessione del beato John Henry Newman.
«Signore, abbi pietà di me peccatore! Queste parole ci pongono dinanzi quello che può chiamarsi il segno distintivo della religione cristiana, in contrasto con le varie forme di culto e professioni di fede che, in tempi antichi o recenti, si sono diffuse sulla terra. Queste parole sono una confessione di peccato e un appello alla misericordia. Non vogliamo dire che la nozione della colpa e quella del perdono siano state introdotte dal Cristianesimo e fossero sconosciute all’infuori di esso. Ma ciò che è proprio della nostra Religione divina, come di quella ebraica prima di essa, è questo: che la confessione del peccato non esula dall’idea della più alta santità di essa, e che i suoi migliori fedeli, e gli eroi stessi della sua storia, sono soltanto peccatori redenti e riabilitati, e altro non possono essere, e quasi se ne compiacciono in cuor loro e ne portano fino in Cielo la convinzione, quasi in trionfo.
Tale confessione sgorga non solo dalle labbra neofita o del peccatore ostinato, non è il grido degli uomini comuni e mediocri soltanto, che lottano contro gli assalti della tentazione in questo vasto mondo, ma è l’inno stesso dei santi, il coro trionfante che risuona dalle arpe dei beati in Cielo, dinanzi al trono del loro Divin Redentore al Quale cantano: “Tu fosti immolato, e ci hai redenti, o Dio, nel Tuo Sangue, da ogni tribù, da ogni lingua, da ogni popolo, da ogni nazione”. E quello che, per i Santi in Cielo, costituisce motivo perenne di gratitudine, è, finché sono sulla terra, causa della loro perpetua umiliazione. Qualunque sia il loro progresso nella vita spirituale, essi rimangono prosternati e non cessano di battersi il petto, come se il peccato non potesse rimanere estraneo a loro, finché vivono nella carne. Gli altri possono prenderli a modello, ma essi altro modello non hanno che Dio; alcuni potranno anche parlare dei loro meriti, ma essi non parlano che dei loro difetti. I giovani e gli innocenti, gli anziani e i vecchi, quelli che hanno peccato di meno e quelli che più si sono pentiti, le tenere fronti innocenti e le teste canute, tutti si uniscono in quest’unica litania: “Signore, abbi pietà di me peccatore!”. Così san Luigi, così, d’altra parte, sant’Ignazio, così la giovanissima santa Rosa che, fin da piccina, sottoponeva il suo tenero corpo alle penitenze più rigorose, così san Filippo Neri, uno dei santi più anziani che, se qualcuno lo lodava, esclamava: “Vattene! Sono un demonio, non un santo”, e, quando si comunicava, protestava al suo Signore di non esser “buono a nulla, se non a fare il male”. Questa assoluta umiliazione di sé, lo ripeto e sostengo, è il distintivo e il carattere dominante del servo di Cristo, e questo, invero, è significato anche dalle parole stesse di Lui: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”, e da Lui stesso tale umiliazione è riconosciuta e inculcata con queste altre parole: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”».

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