SPIRITUALITÀ
Un “uomo finito” cambia rotta: Giovanni Papini
dal Numero 6 del 5 febbraio 2023
di Paolo Risso

Si era dato al mondo con la meta di un’ambiziosa carriera letteraria presto raggiunta. Al varco del suo traguardo, la sconvolgente disfatta della sua anima. Questa l’esperienza dell’eccentrico Papini, finché non ebbe scoperto Cristo, vera meta di felicità e di pace intramontabile. 

Suo padre, garibaldino con la camicia rossa al Volturno e all’Aspromonte, riteneva il Battesimo cattolico un rito detestabile. Ma, quando il 9 gennaio 1881 a Firenze venne al mondo il figlio Giovanni Papini, la madre, buona Erminia, lo fece battezzare di nascosto, nel “bel San Giovanni” dove nel maggio 1265 era stato battezzato Dante.
Appena Giovanni iniziò ad andare a scuola, suo padre pretese che uscisse dall’aula allorché entrava il prete a insegnare Religione. Una volta, però, il bambino andò a origliare alla porta e sentì che il prete spiegava il quarto Comandamento di Dio: “Onora tuo padre e tua madre”. Rientrato a casa, domandò a suo padre: «Perché non vuoi che ascolti uno che insegna a onorarti?». 
Crebbe affamato di libri e di riviste, con addosso una voglia di scrivere che lo divorava... Un giorno la mamma lo portò a passeggiare sul Lungarno. Passarono due uomini, d’alta statura, stranieri. Uno di loro, vedendo il piccolo dai capelli dorati, si fermò a guardarlo, gli fece una carezza e si allontanò. Era Friedrich Nietzsche, colui che riteneva il Cristianesimo «l’infamia dell’umanità» ed era considerato un anticristo.
Un’altra volta, nell’autunno 1887, mentre Giovanni si era fermato davanti a una vetrina, sentì un signore, una giovane donna e una ragazza che, parlando francese, interrogavano un passante... Il piccolo si avvicinò e la ragazza gli domandò di insegnarle a recarsi a Santa Maddalena de’ Pazzi. Rispose: «Vi accompagno io». I tre gli tennero dietro e giunsero in pochi passi alla chiesa. La ragazza non disse nulla, ma gli rivolse un sorriso così bello che rimase impresso per sempre nel suo cuore di fanciullo. Era Teresa Martin, la ragazza che pochi mesi dopo sarebbe diventata, nel Carmelo di Lisieux, suor Teresa di Gesù Bambino.
E così, Giovanni Papini, da bambino, era stato sfiorato dalla bestemmia e dalla santità eroica, fulgente.
Un “uomo finito”
Si affacciò al mondo della cultura come un ragazzaccio. A 9 anni già componeva versi. A 15 pubblicava i primi scritti. Conseguì il diploma di maestro, perché aveva bisogno di guadagnarsi da vivere. Ma sognava la gloria. A 20 anni, già orfano di padre, era insegnante e bibliotecario. Attorno a lui imperava il positivismo per cui vale solo la materia, ma a Papini questo non bastava. In un discorso a Siena, il 21 febbraio 1904, gridò: «L’uomo non è il suo ventre!». Con Prezzolini aveva già fondato la rivista Leonardo. Inquieto, tormentato, alla ricerca della luce, dietro le lenti dei suoi occhi miopi, con il cuore di tenebre.
Vennero i libri: brillanti, mordaci, infinitamente tristi. Giovane senza fede, gli bruciava il vuoto, la negazione dello spirito. Spasimava: «Sono nauseato di me stesso». Nel 1908 prese a scrivere su La voce, ma non ne fu appagato. Seguirono altri libri, dove non mancavano le bestemmie. A 30 anni era già famoso e... famigerato.
Un giorno, insieme a un amico, senza fede anche lui, passava per la strada da Settignano a Firenze. Un povero malfermo venne loro incontro a tendere la mano. L’amico tirò fuori una lira d’argento e gliela diede, dicendogli: «A una condizione: almeno tre bestemmie mi devi far sentire». Il povero aveva già in mano la moneta, ma a quelle parole non ebbe più la forza di tenerla: nonostante la sua fame fosse così evidente, la lasciò cadere. «Bestemmiare Gesù Cristo? – disse – E che male mi ha fatto? No, ricevere a questa condizione? No! Meglio la fame!». E si allontanò ancor più triste, più desolato. Papini provò disgusto verso se stesso e non dimenticò più il povero che preferiva la fame piuttosto che insultare Gesù.
Nel 1912 pubblicava Un uomo finito, il suo primo notevole successo. Si dichiarava un uomo finito, perché non era riuscito ad essere un uomo infinito. Invocava: «Una sola piccola fede, un atomo di verità. Un po’ di certezza. Voglio una fede indistruttibile». E poi il suo più grande desiderio, da quando, bambino, l’avevano sfiorato Nietzsche e santa Teresa di Gesù Bambino: «Essere Dio! Tutti gli uomini dèi! Ecco il sogno grande, impossibile, il fine superbo, cercato!». Alla fine la delusione totale: «Ho solo da raccontare la disfatta dell’anima mia».
All’avvicinarsi della guerra (1914) fu decisamente interventista, per disperazione. A Roma, in quegli anni, collaborava a Il tempo, rimpiangendo Firenze e la sua campagna. Trasferitosi a Pulciano con moglie e figlie, scriveva a don Cesare Angelini, sacerdote e letterato: «Mi sono avvicinato a Gesù con nuovo spirito e credo di averlo sentito come pochi... Ho scoperto che Gesù è sempre il solo, e che non c’è salvezza al di fuori di Lui».


Incontro a Cristo
In alcuni articoli del 1919, con estrema lucidità, con attualità sconcertante, come se scrivesse oggi, affermava: «Ai valori moderni, omicidi, che ci hanno insanguinato fino le mani e ci hanno avvelenato il cuore e insudiciato la vita, dobbiamo sostituire i valori eterni, i contrari dei valori dominanti. Vi è una Guida con la quale potremmo trovare anche oggi i principi di una “seconda nascita”, alla quale dovremo per forza tornare, se non vogliamo morire nella disperazione. È Gesù Cristo!».
Gli scriveva Domenico Giuliotti: «La tua penna per 20 anni ha scritto sotto dettatura del diavolo. Oggi comincia a scrivere per rinnegare ciò che hai scritto, per essere folle tra i savi del mondo, della follia di Cristo. Mettiti contro-corrente».
Racconta Papini: «Il Cristianesimo mi apparve come un rimedio ai mali dell’umanità, ma, proseguendo nelle mie letture e meditazioni, venni a persuadermi che il Cristo, Maestro di una morale così opposta alla natura degli uomini, non poteva essere soltanto un uomo, ma Dio. E a questo punto, intervenne l’opera infallibile e segreta della grazia divina. E tanto divenne forte in me l’amore per il divino Maestro della verità e dell’amore, che decisi di far qualcosa perché le sue parole giungessero anche a quelli che non lo conoscono. E cominciai a scrivere, solo, in campagna, spinto dal sincero bisogno di giovare a qualche mio fratello, la “Storia di Cristo”. E finita che fu, mi si presentò davanti l’esigenza di appartenere alla società fondata da Lui, la Chiesa Cattolica». 
Il bestemmiatore era ormai diventato un a­­po­­stolo di Gesù. Nel 1921 uscì dunque questa sua Storia di Cristo. Il libro di un noto rompicollo si presentò più inatteso che mai. Suscitò ironie e derisioni, da parte dei “laicisti” e dei negatori, ed entusiasmi formidabili. Molti ammirarono il suo coraggio di essere andato, ancora una volta, contro-corrente. A Torino, solo per dirne una, lesse il libro anche il beato Piergiorgio Frassati (1901-1925) il quale si sentì ancor più radicato nella sua fede, già attiva e militante. Non solo lo lesse, ma lo offrì agli amici, dicendo: «Questo non è un romanzo, ma è qualcosa di più bello, di più elevato. Farà del bene».
Dal 1921, l’anno della conversione, alla morte – ossia per 35 anni –, Papini continuò a studiare, parlare e scrivere con un unico intento: irradiare Gesù Cristo ai fratelli. Trovava coraggio – come tutti i cattolici esemplari, come i santi – nella Confessione regolare, nella Comunione frequente, nella preghiera del Rosario alla Madonna, con l’anima rinata e fresca di un bambino appena battezzato. Impossibile dir tutto di lui: ogni anno usciva un suo libro con stile “toscano” e toni da profeta biblico, in cui c’è il fuoco di santa Caterina da Siena e di Savonarola, e la dolcezza dei mistici. Per essere più vicino a Gesù si aggregò al Terz’Ordine Francescano con il bel nome di “fra Bonaventura”. Lo seguiamo solo in alcune battute che dicono tutto di lui: «Dinanzi a Dio, non contano i libri, i successi, gli elogi o i biasimi letterari, ma solo quel po’ di bene che abbiamo fatto in questo mondo». 
«C’è necessità – scriveva ai sacerdoti – di santi più che di studianti. La più terribile carestia oggi è la carestia di santi. Ci vorrebbe, per salvare il salvabile, un esercito di santi». «Non temere la morte, ma soltanto l’inutilità della vita e la meschinità dell’anima. Crocifiggetevi con le vostre mani sul legno scabro della Croce di Cristo». 
Rivolto ai governanti: «Non si può essere felici che facendo felici gli altri. Val meglio soffrire e morire per un sogno, che vivere e impinguarsi nella mediocrità delittuosa. Ma Cristo non è un sogno. Noi abbiamo oggi la prova che l’umana saggezza senza di Lui precipita i popoli nell’inferno di tutta la pazzia».
Guardando al destino di ogni uomo: «Ricordati prima di tutto che tu sei un uomo e non una bestia. Tu sei mortale come le giumente dei campi, ma soltanto a te splende la speranza – che è certezza – della finale vittoria sulla morte. Tu sei, pur nel carcere della carne e del tempo, l’impaziente larva di un Dio». 
A chi ironizzava sulla sua fede, rispondeva: «Ho sempre preferito il martirio all’imbecillità». Anzi, attaccato per voler conquistare gli altri a Gesù, ribatteva: «Anche se Cristo nascesse diecimila volte a Betlemme, a nulla ti gioverà se non nasce almeno una volta nel tuo cuore».


“Tu solo ci capisci”
Giovanni Papini, dalla sua conversione, nei discorsi e negli scritti, con la sua vita, aveva voluto solo indicare Gesù ai fratelli. Negli ultimi anni venne la malattia a configurarlo ancor più al Redentore, eppure era nella pace e lodava Dio per il dono grande che aveva ricevuto, l’incontro con Cristo, la vita spesa per Lui. Ora che la vista lo lasciava, non potendo più leggere né scrivere, riempiva le giornate di Rosari alla Madonna e dettava ancora pagine ardenti.
Si spense domenica, l’8 luglio 1956, dolcemente, nel mattino. Tutta la sua esistenza e il suo messaggio apparve nella preghiera con cui chiudeva il suo capolavoro, la Storia di Cristo: «Abbiamo bisogno di te, o Cristo, di te solo e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire, per noi tutti che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c’è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo. Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno. Nessun altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria può dare a noi bisognosi, riversi nell’atroce penuria, quella dell’anima, il Bene che salva [...]. Le nostre anime ti chiamano dal fondo della debolezza e dell’abbattimento [...]. Ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amore nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore».  
 

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