SPIRITUALITÀ
San Bonaventura: con scienza e amore, Dottore veloce
dal Numero 26 del 10 luglio 2022
di Paolo Risso

“Non basta la lettura, senza l’unzione; non basta la speculazione senza la devozione; non basta l’indagine senza la meraviglia; non basta la circospezione senza l’esultanza; l’industria senza la pietà; la scienza senza la carità; l’intelligenza senza l’umiltà; lo studio senza la grazia” – San Bonaventura

A 34 anni dal “dies natalis” di san Francesco d’Assisi († 1226), nel 1260 il capitolo di Narbona affidò a padre Bonaventura da Bagnoregio il compito di scrivere la biografia del medesimo Francesco, per chiarire in modo definitivo ciò che era storico da ciò che sapeva di leggenda edificante, e per frenare le contraddittorie interpretazioni su “detti” e “fatti” del Poverello, ora tirati dalla parte degli “spirituali”, ora trascinati dalla parte dei più “temperati”.

Alla scuola del più semplice

Maestro Bonaventura (al secolo Giovanni Fidanza) era nato a Civita di Bagnoregio (un posto incantevole), nel 1221, quindi non aveva potuto conoscere il “Serafico in ardore”. Per scrivere, com’è giusto, volle documentarsi il più possibile, visitando i luoghi francescani e interrogando coloro che lo avevano conosciuto e amato. Giunse così a Monteripido, presso Perugia, dove viveva, ormai vecchissimo, fra’ Egidio, uno dei compagni più semplici e più cari di Francesco.

Egidio era stato, da giovane, un umile contadino che un giorno, stando sull’aia di casa sua, sentì parlare del ricco figlio di ser Bernardone di Assisi, che aveva lasciato tutto per amore a Gesù povero e unico Amato. La mattina dopo era salito ad Assisi, mentre, essendo il 23 aprile, si festeggiava san Giorgio. Alla Porziuncola aveva visto Francesco, che gli aveva detto: «Che cosa vuoi?». Lui gli aveva risposto: «Voglio stare con te». Da quel giorno di primavera, aveva condiviso tutto di Gesù, sulle orme dell’Assisiate. 

L’umiltà e l’obbedienza che Francesco aveva posto alla base del suo Ordine trovavano in Egidio un assertore sempre più convinto. «Quando il bue – aveva proverbiato da buon contadino – tiene il capo sotto il giogo, i granai si riempiono di grano. Se va libero per la campagna, si sente gran signore, ma i granai restano vuoti». 

Dopo la morte del “Padre” Francesco, Egidio si era ritirato a Monteripido e di lassù vedeva sorgere la grande chiesa e il vasto convento che frate Elia stava innalzando. Lì nasceva il dissidio tra i seguaci di fra Leone che volevano l’assoluta povertà, e quelli di Elia che volevano glorificare la santità del fondatore. Egidio stava con i primi e pare che fosse lui a dire le parole che furono riprese da Jacopone da Todi: «Parigi, Parigi, tu distruggi l’Ordine di san Francesco». 

Alludeva allo “Studio” parigino dove giovani francescani si affiancavano a domenicani alla conquista gioiosa della scienza umana e divina. Il primo gruppo era arrivato a Parigi nel 1219, ancora vivente il Padre. Lo studio era pure “lode a Dio”, e se san Francesco avesse conosciuto quegli studenti, avrebbe aggiunto un’altra strofa al Cantico di frate sole: «Laudato sie mi’ Signore, per frate studio, lo quale illumina la mente, e anch’ello è bello e radiante con grande splendore: de Te, Altissimo, porta significazione».

Dodici anni dopo, a Parigi, i francescani avevano anche un illustre maestro in cattedra, Alessandro di Hales; altresì avevano studi a Oxford, a Cambridge, a Ratisbona, a Bologna. A queste notizie, gli antichi compagni del Poverello temevano e tremavano: che la scienza invanisse i giovani, e che la regola della povertà svanisse sotto le pagine erudite.

Maestro Bonaventura veniva anch’egli da Parigi, doveva aveva studiato sotto la guida di Alessandro di Hales. Era amico e collega di Maestro Tommaso d’Aquino, infine era salito in cattedra, come “esimio Dottore”, a dibattere le sue Questioni disputate. Quando Egidio ebbe davanti Bonaventura, si mise in ginocchio davanti a lui e gli disse: «Padre mio, a voi Dio ha fatto grandi doni, ma noi di ingegno grosso, e senza studi, come faremo a salvarci?». Bonaventura rispose, da dotto e da santo qual era: «Se Dio dà all’uomo la grazia di amarlo, questo basta». Egidio: «Può dunque un ignorante amare Dio come un dotto?». Bonaventura lo assicurò: «Una vecchierella può amarlo anche più di un maestro di teologia!».

Ora Egidio poteva morire contento. Un maestro dottissimo come san Bonaventura era rimasto fedele alla scuola del più semplice e del più umile, qual era Egidio, anzi il padre san Francesco.

La teologia dell’amore

San Bonaventura dimostrava che si può essere dotti, rimanendo umili; sapienti, conservandosi semplici; maestri di dottrina, diventando santi. La scienza dava alla testa soltanto quando le teste erano vuote... le quali si gonfiano di ignoranza. Egidio – e noi con lui – riconosceva in Bonaventura quasi il secondo fondatore dell’Ordine; il Ministro generale che terrà per 14 anni la difficile successione di san Francesco tra le difficoltà dei tempi nuovi e la necessità di provvedere alla formazione dottrinale dei frati minori, sempre più numerosi.

Il detto del beato Egidio era anche quello di padre Bonaventura: «Dove c’è amore (a Gesù, Gesù povero, Gesù crocifisso) il maligno non può entrare». Dove c’è carità non c’è posto per la superbia. E lo studio, soprattutto lo studio del Verbo di Dio, il Cristo, non poteva essere che carità e non doveva mirare che alla perfezione della carità. Era la stessa visione di san Tommaso d’Aquino e di tutti i Dottori cristiani. Ma la mente di Bonaventura si distingueva per la rapidità con cui risolveva ogni questione, per giungere velocemente a Gesù centro di tutto, a Dio, ultimo fine e bene supremo, alla sua contemplazione, alla sua partecipazione.

Si dice – e penso sia vero – che la sua parola preferita era “velociter”: velocemente, rapidamente, senza indugi razionalistici, senza compiacenze (o congratulazioni!) personali. Bonaventura punta allo scopo, a Dio, tramite Gesù («Nessuno va al Padre, se non per mezzo di me»: Gv 14,6) e nessuno e niente lo ferma. «Est in opere bono, necessaria strenua velocitas», c’è nell’opera buona una necessaria audace velocità. Anche lo studio che illumina e prepara all’amore di Dio è un’opera buona da farsi velocemente.

Per questo san Bonaventura, per la sua vita infiammata di amore di Dio, per le sue opere, animate dall’amore ardente e generatrici del medesimo amore, è detto il Dottore Serafico, perché come i serafini ebbe il volo rapido e caldissimo. Come il serafino che apparve nel cielo della Verna a san Francesco e lo trafisse con le stimmate del Crocifisso. Questo serafino, con sei ali infuocate e risplendenti, ispirò a san Bonaventura la sua opera più nota e ardente: l’Itinerarium mentis in Deum (che a me 30enne ispirò di scrivere Itinerario a Cristo, LDC, Torino, profilo di Cristo per i ragazzi). 

Nel prologo al libro, il Dottore Serafico scrive: «Mentre sulla traccia del beatissimo nostro padre Francesco, io peccatore che sono succeduto a lui dopo il trapasso [...] cercavo la pace con anima anelante, accadde che dopo 32 anni dal suo trapasso, per cenno divino, mi ritirassi sul monte della Verna, luogo quieto dove cercai la pace dello spirito. E lì restando, mi venne in mente il miracolo avvenuto in quel luogo, allo stesso Francesco, la visione del Serafino alato, in sembianza del Crocifisso».

Le sei ali del Serafino sono i sei mezzi che l’uomo ha per salire fino a Dio. «Non basta – dice san Bonaventura –, non basta la lettura, senza l’unzione; non basta la speculazione senza la devozione; non basta l’indagine senza la meraviglia; non basta la circospezione senza l’esultanza; l’industria senza la pietà; la scienza senza la carità; l’intelligenza senza l’umiltà; lo studio senza la grazia».

Lo studio deve essere non solo scoperta della Verità, ma desiderio della Verità, quindi amore per la Verità, partecipazione alla Verità, esperienza viva della Verità. E, sia ben chiaro a tutti: la Verità non è una parola o un suono di voce, la Verità è una Persona che è l’Amore, Gesù Cristo, l’uomo-Dio. Davanti a Lui non basta la “certitudo speculationis” (la certezza della speculazione); occorre la “certitudo adaesionis” (la certezza dell’adesione): occorre aderire alla Verità – a Cristo –, vivere la Verità che è Lui. Come scrive san Bonaventura: sperimentare la Verità: «Ut patet per experientiam», come appare per l’esperienza, sino a identificarsi con Gesù-Verità. 

In parole semplici: le creature, le realtà umane conducono sino a Dio ma in Dio nessuno penetra, se non per la grazia di Gesù Crocifisso. Scienza sì, ma crocifissa; scienza stimmatizzata da Gesù stesso piagato mani-piedi-costato. Conclude Bonaventura nel suo Itinerarium: «Se domandi in che modo queste cose avvengano, interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito dell’orazione, non lo studio della lezione; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non solo la luce, ma il fuoco che totalmente infiammi e trasporti in Dio».

Questo era stato ed è maestro Bonaventura da Bagnoregio: il Dottore in cui scienza e fede si fanno uno nella sua teologia dell’amore. Con questo suo stile di uomo redento e cristificato è stato anche il più dotto e più sicuro biografo del Poverello d’Assisi, che Dante, per le parole di maestro Tommaso, esalta nell’XI canto del Paradiso, mentre Bonaventura celebra la grandezza di san Domenico di Guzman nel XII canto.

Alla biografia piena di amore di san Francesco scritta da san Bonaventura, Giotto si ispirò per narrare con i colori e il pennello la storia del Poverello sui muri della Basilica superiore di Assisi. Papa Gregorio X lo nominò cardinale e vescovo di Albano. Era poco più che 50enne, ma morì il 15 luglio 1274 mentre partecipava al secondo Concilio di Lione, che lui stesso aveva contribuito a preparare. Il suo amico maestro Tommaso era morto il 7 marzo 1274. Erano i due più grandi maestri della Chiesa e si dice che la Chiesa, in quel periodo in cui se ne erano andati entrambi in Paradiso, provò un immenso vuoto. 

La loro dottrina e i loro esempi di santità illuminano ancora la Chiesa e il mondo di oggi, come continuo richiamo a Cristo, “il Dottore dei Dottori”, come lo chiama santa Teresina di Gesù Bambino, pur ella “Dottore della Chiesa” con la luce della Verità e dell’Amore.

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