MODELLI DI VITA
Dall’incudine agli altari. Nunzio Sulprizio santo
dal Numero 37 del 30 settembre 2018
di Paolo Risso

Il prossimo 14 ottobre Nunzio Sulprizio sarà iscritto nell’albo dei Santi. Questo giovane Santo napoletano, vissuto nella povertà e nel dolore, ha saputo dare senso e bellezza alla sua giovinezza grazie a Gesù, amato e imitato. Come lui, se lo vogliono, i giovani d’oggi possono fare della loro vita un capolavoro di amore e santità, vincendo ogni insidia del mondo.

A 540 metri sul livello del mare, sulle pendici del monte Picca, si distende, a diversi livelli per lo sperone della roccia, il borgo di Pescosansonesco, in provincia di Pescara. Lì, dai giovani sposi Domenico Sulprizio, calzolaio, e Rosa Luciani, il 13 aprile 1817, domenica “in albis” nacque un bambino che, battezzato prima del tramonto del medesimo giorno, fu chiamato Nunzio.
Solo il registro dei battesimi – il libro dei figli di Dio – della sua parrocchia, per lunghi anni riporterà il suo nome: ignoto ai potenti, ma notissimo e bene amato da Dio. A tre anni, i suoi genitori lo portarono al vescovo di Sulmona, monsignor Francesco Tiberi, in visita pastorale nel vicino paese di Popoli, perché fosse cresimato: era il 16 maggio del 1820, l’unica data lieta della sua fanciullezza, perché in seguito non avrà che da soffrire.


Orfano e sfruttato

Nell’agosto dello stesso anno, muore papà Domenico a soli 26 anni. Circa due anni dopo, mamma Rosa si risposa per trovare un sostegno economico, ma il patrigno tratta il piccolo Nunzio con asprezza e grossolanità. Lui si lega molto alla mamma e alla nonna materna. Comincia a frequentare la scuola, una specie di “giardino d’infanzia”, aperto dal sacerdote don De Fabis, nel paese della nuova residenza, Corvara.
Sono per Nunzio le ore più serene della sua vita: impara a conoscere Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo e morto in croce in espiazione del peccato del mondo, intraprende a pregare, a seguire gli esempi di Gesù e dei santi, che il buon prete e maestro gli insegna. Gioca, socievole e aperto, con i suoi piccoli amici. Comincia a imparare a leggere e scrivere.
Ma il 5 marzo 1823, muore la mamma: Nunzio Sulprizio ha solo sei anni, e la nonna materna, Rosaria Luciani, lo ospita in casa prendendosi cura di lui. È analfabeta, ma ha una fede e un bontà grandissime: nonna e nipote camminano sempre insieme: insieme nella preghiera, alla Messa, nei piccoli lavori di casa. Il bambino frequenta la scuola istituita da don Fantacci, per i fanciulli più poveri, e lì cresce, in sapienza e virtù: è un puro di cuore che si delizia a servire la Messa, a far visita a Gesù Eucaristico nel tabernacolo, molto spesso. Ha dentro un orrore sempre più grande del peccato e un desiderio sempre più intenso di rassomigliare al Signore Gesù.
Quando ha 9 anni, il 4 aprile 1926, gli muore la nonna. Nunzio orma è solo al mondo ed è per lui l’inizio di una lunga “via dolorosa” che lo configura sempre più a Gesù crocifisso.
Solo al mondo, è accolto in casa come garzone dallo zio Domenico Luciani – detto “Mingo” – il quale subito lo toglie dalla scuola e lo “chiude” nella sua bottega di fabbro ferraio, impegnandolo nei lavori più duri, senza alcun riguardo all’età e alle più elementari necessità della vita. Spesso lo tratta male, lasciandolo anche senza cibo, quando a lui sembra che non faccia tutto ciò che gli estato richiesto. Lo manda a fare commissioni, senza curarsi delle distanze né dei materiali da trasportare, né degli incontri buoni o cattivi che può fare. Allo “sbaraglio” sotto sole, pioggia, neve, vestito sempre allo stesso modo. Non gli sono risparmiate neppure le percosse, “condite” da parolacce e bestemmie.
Ci sarebbe da soccombere in breve, ma Nunzio ha già una fede grande. Nel chiuso dell’officina, battendo sull’incudine, occupato sotto la “sferza” di un lavoro disumano, pensa al suo grandissimo Amico, Gesù crocifisso, e prega e offre in unione con Lui, «in riparazione dei peccati del mondo, per fare la volontà di Dio, per guadagnarsi il Paradiso». Alla domenica, anche se nessuno lo manda, va alla Messa, il suo unico sollievo della settimana.
Presto si ammala. Un rigido mattino d’inverno, lo zio Mingo lo manda con un carico di ferramenta sulle spalle su per le pendici di Roccatagliata, in uno sperduto casolare. Vento, freddo e ghiaccio lo stremano. Lungo il camino mette i piedi accaldati in un laghetto gelido. A sera rientra spossato, con una gamba gonfia, la febbre che lo brucia, la testa che scoppia. Va a letto senza dir nulla, ma l’indomani non regge più.
Lo zio gli dà come “medicina” quella di riprendere il lavoro, perché «se non lavori non mangi». Nunzio, in certi giorni, si trova costretto a chiedere un pezzo di pane ai vicini di casa. Risponde con il sorriso, la preghiera, il perdono: «Sia come Dio vuole, sia fatta la volontà di Dio». Appena può, si rifugia a pregare in chiesa, davanti al tabernacolo: gioia, energia, luce gli vengono da Gesù-Ostia, così che appena adolescente, è in grado di dare consigli sapientissimi ai contadini che lo interpellano.
Si trova con una terribile piaga al piede, che presto andrà in cancrena. Lo zio gli dice: «Se non puoi alzare il maglio, starai fermo a tirare il mantice». È una tortura indicibile. La piaga ha bisogno di continue pulizie e Nunzio si trascina fino alla grande fontana del paese per pulirsi ma di là viene cacciato come un cane rognoso, dalle donne che, venendo a lavare i panni, temono che inquini l’acqua. Trova allora una vena d’acqua a Riparossa, dove può provvedere a se stesso, impreziosendo il tempo trascorso con molti Rosari alla Madonna.


Un secondo padre

Tra l’aprile e il giugno 1831, è ricoverato all’ospedale dell’Aquila, ma le cure sono impotenti. Per Nunzio sono settimane di riposo per sé e di carità per gli altri ricoverati, di preghiera intensa. Rientrando in casa, è costretto dallo zio a chiedere l’elemosina per sopravvivere. Commenta: «È molto poco che io soffra, purché riesca a salvare la mia anima, amando Dio». In tanto buio, solo il Crocifisso è la sua luce.
Finalmente lo zio paterno, Francesco Sulprizio, informato da un uomo di Pescosansonesco, fa venire Nunzio a casa sua e lo presenta al colonnello Felice Wochinger, conosciuto come “il padre dei poveri”, per la sua intensa vita di fede e per la sua inesauribile carità. È l’estate del 1832 e Nunzio ha 15 anni: Wochinger scopre di avere davanti un vero “angelo” del dolore e dell’amore a Cristo, un piccolo martire. Si stabilisce tra i due un rapporto di padre e figlio.
Il 20 agosto 1832, Nunzio entra all’ospedale degli Incurabili in cerca di cure e di salute. Provvede il colonnello a tutte le sue necessità. Medici e malati si accorgono di avere davanti un altro san Luigi. Un buon prete gli domanda: «Soffri molto?». Risponde: «Sì, faccio la volontà di Dio». «Che cosa desideri?». «Desidero confessarmi e ricevere Gesù Eucaristico per la prima volta». «Non hai ancora fatto la Prima Comunione?». «No, dalle nostre parti occorre attendere i 15 anni». «E i tuoi genitori?». «Sono morti». «E chi pensa a te?». «La Provvidenza di Dio».
Viene subito preparato alla Prima Comunione: per Nunzio è davvero il giorno più bello della sua vita. Il suo confessore dirà che «da quel giorno la grazia di Dio incominciò a operare in lui fuori dall’ordinario, da vederlo correre di virtù in virtù. Tutta la sua persona spirava amore di Dio e di Gesù Cristo».
Per circa cinque anni soggiorna tra l’ospedale di Napoli e le cure termali di Ischia, ottenendo qualche passeggero miglioramento. Lascia le stampelle e cammina da solo con il bastone. Finalmente è più sereno: prega molto, stando a letto e andando in cappella davanti al tabernacolo e al Crocifisso, e all’Addolorata. Si fa angelo e apostolo degli altri ammalati, insegna il Catechismo ai bambini preparandoli alla Prima Comunione e a vivere più intensamente da cristiani, a valorizzare il dolore. Quelli che lo avvicinano, sentono in lui il fascino della santità. Suole raccomandare ai malati: «Siate sempre con il Signore, perché da Lui viene ogni bene. Soffrite per amore di Dio e con allegrezza». Per sé, ama molto un’invocazione alla Madonna: «Mamma mia, Maria, fammi fare la volontà di Dio».
Fatto il possibile per la sua salute, dall’11 aprile 1834, Nunzio vive nell’appartamento del colonnello Wochinger, al Maschio Angioino. Il suo secondo “padre” si specchia nelle sue virtù e ha cura grandissima di lui, contraccambiato da profonda riconoscenza. Pensa di consacrarsi a Dio, e in attesa si fa approvare dal confessore una regola di vita per le sue giornate, regola simile a quella di un consacrato, che osserva con scrupolo: la meditazione e la Messa al mattino, ore di studio durante il giorno, seguito da buoni maestri, il Rosario alla Madonna verso sera. Possiamo pensare con fondamento che Nunzio abbia offerto a Gesù il voto di castità privato, per sempre. Nunzio diffonde pace e gioia attorno a sé, e profumo fragrante di santità.
Il venerabile Gaetano Errico, fondatore della Congregazione dei Sacri Cuori, gli promette che lo accoglierà nella sua famiglia religiosa appena fosse avviata: «Questo è un giovane santo e a me interessa che il primo a entrare nella mia congregazione sia un santo, non importa se malato». Molto spesso un certo Filippo, dell’Ordine degli Alcantarini, viene a tenergli compagnia, finché il ragazzo riesce a reggersi, nella chiesa di Santa Barbara, interna al castello. Presto, però, all’iniziale miglioramento, segue l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche: in fondo si tratta di cancro alle ossa e non c’è cura che serva. Nunzio diventa un’offerta viva – oblatio munda – con il Crocifisso, a Dio gradita.


La gioia: dal Crocifisso

Il colonnello gli sta molto vicino: dal primo giorno, lo ha chiamato “figlio mio” o “bambino mio”, ricambiato da lui, con il nome “papà mio”. Ora comprende che purtroppo si avvicina l’ora della separazione che solo la fede consola nella certezza dell’“arrivederci in Paradiso”.
Nel marzo 1836, la situazione di Nunzio precipita. La febbre è altissima, il cuore non regge più. Le sofferenze sono acutissime. Prega e offre, per la Chiesa, per i sacerdoti, per la conversione dei peccatori. Quelli che passano a trovarlo raccolgono le sue parole: «Gesù ha patito tanto per noi e per i suoi meriti ci aspetta la Vita eterna. Se soffriamo per poco, godremo in Paradiso». «Gesù ha sofferto molto per me. Perché io non posso soffrire per Lui?». «Vorrei morire per convertire anche un solo peccatore».
Il 5 maggio 1836, Nunzio si fa portare il crocifisso e chiama il confessore. Riceve i Sacramenti come un santo. Consola il suo “secondo papà”: «State allegro, dal Cielo vi assisterò sempre!». Verso sera, dice tutto contento: «La Madonna, la Madonna, vedete quanto è bella!». A 19 anni, va a veder Dio per sempre. Attorno si spande un profumo di rose. Il suo corpo, disfatto dalla malattia, diventa singolarmente bello e fresco e rimane esposto per 5 giorni. Il suo sepolcro diventa meta di pellegrinaggi.
Già papa Pio IX, il 9 luglio 1869, lo dichiara venerabile. Il 1° dicembre 1963, Paolo VI iscrive Nunzio tra i beati. Il 14 ottobre 2018, Nunzio Sulprizio sarà annoverato tra i santi della Chiesa.
Se Nunzio, vissuto solo nel dolore, ha saputo dare senso e bellezza alla sua giovinezza grazie a Gesù amato e vissuto, perché, con la sua grazia, la grazia del divino Redentore, il più grande amico dell’uomo, i giovani d’oggi pure insidiati dallo sregolamento di tutti i sensi, dalla droga, dalle false ideologie, dalla disperazione, non potranno fare della loro vita un capolavoro di amore e di santità? Occorre che educatori e sacerdoti – e ragazzi di oggi – credano e obbediscano al Cristo crocifisso e risorto che fa nuove tutte le cose.

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