LA PEDAGOGISTA
Rivalità tra fratelli ed educazione alla fraternità
dal Numero 10 del 10 marzo 2013
di Teresa Mancini

Capita quasi in tutte le famiglie, fatta qualche rara eccezione, che si faccia esperienza della gelosia infantile, soprattutto in concomitanza di una nuova nascita, e che ci si confronti con il sentimento di rivalità tra fratelli, che spesso determina nei genitori preoccupazione, sofferenza, senso di sconcerto e di impotenza. Tutti aspiriamo a veder realizzato tra i nostri figli un rapporto di autentica fraternità, di coesione di affetti, di sostegno reciproco e nel contempo temiamo le rivalità, la competizione, l’ambivalenza che spesso emerge dalle loro dinamiche relazionali. Timore legittimo, se consideriamo che tra le prime conseguenze, che il male comportò nella vita dei progenitori Adamo ed Eva, fu proprio la rivalità tra i figli Caino e Abele. Ci sono genitori, pochi, che non hanno problemi: “No, mio figlio non ha mai provato gelosia per il fratellino... lo ha amato dal primo momento... lo aiuta... giocano insieme, guai a separarli!”; altri invece che, con dichiarato sentimento di impotenza, confessano il loro fallimento: “I miei figli sono cane e gatto... ogni motivo è buono per scagliarsi uno contro l’altro... a volte mi sembra si odino, non so più cosa fare!”.
È frequente, infatti, incontrare genitori bisognosi di consigli e guida, poiché sentono di non saper affrontare il problema in modo efficace e risolutivo. È importante, prima di tutto, capire da che cosa nasce il sentimento di gelosia, di ostilità, se è espressione di cattiveria o se, invece, è un modo naturale di superare la dipendenza affettiva rispetto ai genitori, un passaggio obbligato nel processo di graduale acquisizione dell’autonomia affettivo-relazionale. Ma prima ancora chiediamoci come riconoscere le manifestazioni di “sofferenza da gelosia”, perché si tratta proprio di sofferenza e non sempre manifesta e riconoscibile. Alcuni bambini declamano platealmente la loro rivalità verso il neonato (“È brutto e puzza”, “Lo soffocherò”, “Mandatelo via, non lo voglio”); altri richiamano disperatamente l’attenzione su di sé con capricci, distruggendo le cose, facendo inusitati dispetti, suscitando nervosismo, provocando, a volte aggredendo; altri ancora, e sono queste le manifestazioni che pretendono più sensibilità e delicatezza nell’intervento del genitore, diventano solitari, quasi indifferenti, troppo buoni e rinunciatari, depressi, facili a immotivate crisi di pianto. Possono manifestarsi ancora difficoltà nel prendere sonno, nell’iniziare ad avere paure mai manifestate prima (paura del buio, di restare da soli, di animali, della lavatrice nella fase di centrifuga...), forme di regressione a livello comportamentale e nell’autonomia personale: riprendere il ciuccetto, fare la pipì a letto, farsi imboccare, balbettare. In genere, le “forme camuffate” presentano più problemi e chiedono più attenzione di quelle manifeste: il bambino che si esprime, che si oppone è un bambino che ha in sé la forza di affrontare e superare la propria sofferenza, è già a metà del percorso in uscita; il bambino che subisce il proprio stato d’animo e non lo esprime, in genere, è più fragile, non ha in sé l’energia psicologica necessaria per affrontarlo ed è dunque più bisognoso di soccorso. Ogni bambino è diverso da un altro ed è con questa diversità che bisogna sempre fare i conti…

Fine prima parte

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