RELIGIONE
Ratzinger e la “sua” economia
dal Numero 6 del 5 febbraio 2023
di Riccardo Pedrizzi

Nel suo pontificato papa Benedetto XVI ha trattato vari temi decisivi e critici del nostro tempo, dimostrando che questi possono trovare la loro soluzione solo nella tradizione della fede e nella conoscenza radicata nella verità e nella giustizia. Facciamo tesoro di tanta saggezza.

Papa Benedetto XVI è stato sempre consapevole del fatto che l’incremento demografico non produce povertà, ma ricchezza, perché l’apertura moralmente responsabile (ossia consapevole) alla vita è una ricchezza sociale ed economica ed è il motore del vero sviluppo. Per questo egli chiamava gli Stati a varare politiche che promuovessero la centralità e l’integrità della famiglia, «fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna [...], prima e vitale cellula della società» [1]. 
Benedetto XVI riprese persino il linguaggio tradizionale della Chiesa (“carità” al posto, ad esempio, di “solidarietà”); rivalutò, alla luce della esperienza fatta sul campo, nel corso della crisi finanziaria, il ruolo degli stati nazionali, respingendo il generico buonismo e il sentimentalismo filantropico e fornendo adeguati criteri per affrontare le crisi economiche, che non possono rappresentare solamente incidenti di percorso nell’evoluzione del modello economico capitalistico. In pratica Benedetto XVI ci offre gli strumenti interpretativi per comprendere che le cause del devastante “tsunami”, ad esempio, che colpì le economie di tutti i paesi, non possono essere solamente le malversazioni, le truffe di finanzieri d’assalto e spregiudicati, i superbonus autoassegnatisi dai manager stessi, le misurazioni dei risultati aziendali sul breve e brevissimo termine, la mancanza di regole, che ancora oggi non si intravedono all’orizzonte, la diffusione dei cosiddetti titoli tossici (la cui massa già ora è di gran lunga superiore a quella in circolazione prima della crisi). 
Nell’Enciclica Caritas in veritate, il Papa denunciava i pericoli e gli eccessi di una globalizzazione senza regole, della mercificazione dell’esistenza, di un capitalismo ormai privo di etica e di umanità ed indicava agli uomini di questo XXI secolo una nuova prospettiva di sviluppo e di convivenza sociale in grado di alleviare le sofferenze di tanti esseri umani [2]. «La carità nella verità, di cui Cristo si è fatto testimone [...], è la vera forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» (n. 1), scriveva il Papa.
Nella stessa Enciclica, riprendendo il magistero di sempre dei suoi predecessori, Benedetto XVI denunciava la precarizzazione endemica del lavoro che ostacola i normali percorsi di vita, condannava la delocalizzazione sistematica delle imprese che spesso porta allo sfruttamento, riprendendo un tema caro al suo predecessore Pio XI, che scriveva nella Quadragesimo anno: «Bisogna dunque fare di tutto perché i padri di famiglia percepiscano una mercede tale che basti per provvedere convenientemente alle comuni necessità domestiche» (n. 72). Stigmatizzava, inoltre, l’abbassamento delle tutele sociali per l’indebolimento del sindacato e puntava il dito contro un mercato e un’idea di lavoro puramente strumentale, volta solo a creare profitto, nell’ambito di un’economia che non è sociale e tantomeno “fraterna”. «Negli ultimi anni – si legge nell’Enciclica Caritas in veritate – si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi» (n. 40). È lo stesso linguaggio di papa Pio XI che profeticamente nella sua Quadragesimo anno affermava: «E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento» (n. 105). 
È una requisitoria, severa e radicale, ma mirata, saggia, attuale, quella di Benedetto XVI, sulla scorta di una millenaria sapienza che non gettava il bambino della libertà economica con l’acqua sporca dell’utilitarismo cieco. Egli, infatti, si pronunciava a favore dell’economia di mercato: «La Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale. Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per se stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale» (n. 36). 
E proprio perché i talenti dell’uomo devono essere sviluppati e moltiplicati secondo l’insegnamento evangelico, anche il profitto, per la dottrina della Chiesa, non è mai stato considerato un peccato, anzi deve essere il motore dell’economia, superando la vecchia visione dello Stato assistenziale. Analogo messaggio era stato lanciato da Giovanni Paolo II nella sua Centesimus annus: «La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda: quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati e i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine e insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità [...]. Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; a esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa» (n. 35). 
Benedetto XVI non si limitava ad elencare principi dottrinari, ma si calava nelle più incandescenti contraddizioni dell’epoca che viviamo. La crisi che colpì l’economia mondiale era, per la prima volta, veramente globale, perché su scala universale si era e si è diffuso un modello di sviluppo all’interno del quale si crede ciecamente nella capacità del mercato di autoregolamentarsi. Per questo il Papa emerito richiamava al recupero del rapporto fra etica ed economia, mirando evidentemente a ricucire lo strappo del legame dell’economia con le scienze morali, per un superamento della concezione dell’“homo œconomicus”, fondata sulla presunta razionalità strumentale. Una razionalità a ben vedere paradossale visto che, alla luce della dura lezione dei fatti, è stata proprio l’indifferenza etica al bene comune a generare povertà. 
Insomma l’uomo, la persona deve tornare al centro dell’azione economica. E questo perché lo sviluppo non è di per sé garantito da forze impersonali e automatiche, ma necessita di persone che lo animino e lo organizzino vivendo nelle loro coscienze il richiamo del bene comune.
È in questo modo concreto, pragmatico che Benedetto XVI invitava a cercare la verità nell’“economia” della carità, a sua volta compresa, avvalorata e praticata alla luce della verità. 
«Senza verità – scriveva chiaramente Benedetto XVI –, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente». In una cultura senza verità l’amore è solo un sentimento, «è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti. [...] Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme “Agápe” e “Lógos”: Carità e Verità, Amore e Parola» (n. 3). 
«Per questo – continua il Papa – un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato, nella migliore delle ipotesi, per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale» (n. 4); nella peggiore, in una predicazione rivoluzionaria e sovversiva come è avvenuto per la teologia della liberazione. 
Il punto è che senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale. 
L’amore nella verità – Caritas in veritate – è dunque la grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva globalizzazione. Una sfida radicale perché «il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano» (n. 9). 
Quando il Papa invocava questa forza d’amore non indicava qualcosa di evanescente. Piuttosto sottolineava come sia un’astrazione l’idea di un’uguaglianza tra gli uomini fondata sulla ragione. Parimenti è un’ingenuità pericolosa quella di credere che la tecnica, da sola, possa essere lo strumento del progresso umano per eccellenza quando questa non sia guidata e illuminata da una ragione superiore. Ed è una ragione così illuminata quella che guidava la riflessione di Benedetto XVI. «Talvolta nei riguardi della globalizzazione – scriveva Benedetto XVI – si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana. È bene ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz’altro intesa come un processo socio-economico, ma questa non è l’unica sua dimensione. Sotto il processo più visibile c’è la realtà di un’umanità che diviene sempre più interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo deve essere di utilità e di sviluppo, grazie all’assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive responsabilità. Il superamento dei confini non è solo un fatto materiale, ma anche culturale nelle sue cause e nei suoi effetti. Se si legge deterministicamente la globalizzazione, si perdono i criteri per valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere a monte vari orientamenti culturali sui quali occorre esercitare il discernimento [...]. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria» (n. 42). 
 

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