RELIGIONE
“Dio lo fece peccato in nostro favore” (2Cor 5,21)
dal Numero 11 del 13 marzo 2022
di Padre Serafino M. Lanzetta /1

In questo tempo quaresimale che ci prepara alla Pasqua del Signore, guardiamo al mistero della Redenzione alla luce di una celebre espressione paolina. Cercheremo di comprenderne il vero significato per respingere quelle interpretazioni fuorvianti che arrivano a insinuare un peccato in Cristo, pur di renderlo solidale con noi peccatori.

Riflettiamo su un argomento molto bello, molto profondo, ma anche, purtroppo, strumentalizzato, una parola che ci dona san Paolo nella seconda Lettera ai Corinti:

«Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21).

Affronteremo questo tema per cercare di capire che cosa san Paolo ci sta dicendo alla luce della sua lettera, quindi vedremo le conseguenze di alcune interpretazioni fuorvianti di questa pericope paolina.

Leggiamo attentamente quanto san Paolo sta dicendo, perché di primo acchito può sorprenderci. Dire che Gesù è diventato peccato, vuol dire che, in qualche modo, è diventato anche peccatore? No, san Paolo non sta dicendo che Gesù è un peccatore! 

“In nostro favore”

Gesù non ha commesso alcun peccato. Egli è l’Agnello di Dio senza macchia e non poteva conoscere il peccato, non poteva commettere peccato. Alcuni testi del Nuovo Testamento dicono espressamente che Gesù non ha commesso alcun peccato. Allora perché san Paolo dice che Dio Padre fece il Figlio peccato in nostro favore? Ecco, la chiave giusta d’interpretazione di questo versetto sta nelle parole in nostro favore. Il Figlio venne trattato dal Padre come se fosse un peccatore, gli furono addossati tutti i nostri peccati perché Lui li espiasse in nostro favore. Ecco il giusto significato da attribuire a questa parola di san Paolo. Il Padre trattò il Figlio da peccatore, pur non avendo conosciuto alcun peccato, perché Lui, l’unico giusto, potesse espiare in nostro favore, potesse essere il nostro Redentore.

Di qui, l’importanza di vedere questo in nostro favore collegato al fatto che il Padre lo fece peccato. Poi aggiungiamo subito quanto segue, cioè «perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio». Quindi Dio fece peccato, cioè trattò da peccatore, il Figlio in nostro favore, perché noi venissimo resi giusti. Ora è molto chiaro il senso di questa pericope.

Gesù si è immolato per noi, si è offerto in sacrificio per noi. Non si tratta di commettere un peccato, ma di offrire un sacrificio per il nostro peccato, diventando Lui stesso quel sacrificio, per espiare il nostro peccato, così che noi potessimo essere resi giusti. Dire “diventare giustizia di Dio”, nel linguaggio paolino, significa dire “essere giustificati”, resi giusti, cioè resi santi, liberi dal peccato. Quindi è il Figlio che si è offerto per noi, perché noi fossimo liberati dal peccato.

Soddisfazione vicaria

Confrontiamoci ora con un concetto molto caro alla Dottrina cattolica: la soddisfazione vicaria. Un concetto, purtroppo, oggi quasi scomparso dal vocabolario teologico, perché, a giudizio di alcuni, sembra riportarci ad una sorta di giustizialismo, qualcosa di centrato unicamente sulla giustizia, che tralascia l’amore.

Il fatto che vi sia una soddisfazione da pagare, un’opera di soddisfazione da compiere (il Figlio si offre al nostro posto e deve pagare un prezzo per riscattarci dai nostri peccati) sembrerebbe ad alcuni qualcosa di molto angusto rispetto all’amore di Dio; allora si giudica più conveniente disfarsi di questo concetto di soddisfazione vicaria per fare posto esclusivamente all’amore di Dio. 

Senza dubbio è la carità la ragione per la quale il Figlio si offre, il motivo fondamentale per il quale il Padre lo fece peccato. Parimenti, non c’è dubbio che, nel linguaggio paolino, così come nella Tradizione cristiana che poi lo ha recepito, qui si tratta di una soddisfazione vicaria: il Padre offre il Figlio a nostro favore e il Figlio compie questo riscatto, questa espiazione, a nostro favore.

Questa soddisfazione implica, evidentemente, il fatto che noi eravamo peccatori, eravamo in uno stato di antagonismo rispetto a Dio; avevamo rifiutato Dio, eravamo caduti in un laccio mortale e quindi, questo stato d’ingiustizia, richiedeva un’offerta, un’espiazione che potesse riconciliarci con Dio. 

Era allora necessario che il Figlio espiasse il nostro peccato con la sua dolorosa Passione. La ragione per la quale vuole morire, vuole soffrire quella dolorosa Passione, è dettata dalla carità, dalla gratuità, dalla benevolenza da parte del Padre e di Cristo nei nostri confronti. 

Però il fatto che la soddisfazione sia vicaria, quindi che il Figlio soddisfi per noi, offra se stesso a nostro favore, mentre eravamo noi tenuti a pagare quel prezzo, implica che c’è il pagamento di un prezzo. C’è un’offerta che viene compiuta, a nostro favore, per poter bilanciare quella giustizia che purtroppo era stata infranta dal nostro peccato. 

Con il concetto di soddisfazione vicaria, dunque, si capisce il senso di questa parola di san Paolo: Cristo fu reso peccato dal Padre, cioè prese su di sé le conseguenze del nostro peccato, affinché noi, per mezzo di Lui, diventassimo giusti. Ecco allora il modo preciso di  interpretare questa pericope. È necessario tenere a mente questa soddisfazione vicaria, che in fondo è la Redenzione di Cristo; Egli cioè ha pagato per tutti noi e lo ha fatto per ristabilire la giustizia infranta dal nostro peccato, manifestando il suo amore per noi, dimostrando quanto Dio ha amato il mondo, mandando il suo Figlio nel mondo a sacrificarsi per noi.

Gesù, in tutto simile ai fratelli, fuorché nel peccato 

Leggendo le parole che stiamo esaminando, dunque, non possiamo ritenere che il Padre abbia fatto sì che il Figlio diventasse peccatore; esse non significano che il Signore Gesù abbia voluto diventare peccatore come noi per sperimentare la debolezza della nostra natura umana, e così rendersi in tutto simile ai fratelli. Egli si è reso sì in tutto simile ai fratelli, fuorché nel peccato, come spiega la Lettera agli Ebrei (4,15).

Un’altra precisazione molto importante che va fatta è che la conformità di Cristo a noi, divenendo uomo, non è in fondo un abbassarsi fino a prendere su di sé la condizione di debolezza, diventando debole Lui stesso. Egli, piuttosto, è diventato debole per amore, per poter guarire la nostra debolezza. Il senso di questa pericope paolina lo si capisce anche alla luce del capitolo V della seconda Lettera ai Corinti. 

Quando vogliamo capire bene il significato di un versetto, non possiamo estrapolarlo dal contesto e pensare ad un possibile significato che vogliamo attribuirgli. L’ermeneutica giusta, l’interpretazione giusta della Parola di Dio, deve essere sempre quella guidata dal Magistero della Chiesa e dalla sua Tradizione. Non può essere, quindi, che iniziamo a far dire alla Sacra Scrittura quello che noi pensiamo, perché ci piace. 

Un criterio oggettivo primo che dobbiamo utilizzare, per poter leggere correttamente la Sacra Scrittura, è quello di esaminare anzitutto il contesto, quindi leggere anche i versetti precedenti – perché tutti, come sapete, sono concatenati tra loro –, e se una parola non è chiara dobbiamo leggere ciò che la precede, così da avere il senso dell’intera pericope (1). 

In questo caso, se partiamo da qualche versetto precedente, ossia dal versetto 18 di 2Cor 5, comprendiamo bene che questa espressione – Dio fece il Figlio peccato – è un modo per dire che il Figlio ha preso su di sé il nostro peccato per redimerci, per la nostra salvezza. Infatti, san Paolo nei versetti 18-20 afferma: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio».

Il tema della riconciliazione attraverso l’opera di soddisfazione vicaria

Paolo qui parla come Apostolo del Signore: il tema è chiaramente la riconciliazione dell’uomo con Dio, per mezzo del ministero apostolico, che è il ministero di riconciliazione. Pertanto il versetto 19 – «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» – è un versetto chiave. 

Il Padre ha riconciliato il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe ma, nel Suo disegno provvidente, addossando quelle colpe al Figlio, così che fossero da Lui espiate.

Quando veniamo assolti dai peccati, andando a confessarci, facciamo esperienza del ministero della riconciliazione affidato da Gesù agli Apostoli, quindi ai loro successori, i sacerdoti, per poter essere salvati per mezzo di Cristo ed essere perdonati nel suo Sangue. Pertanto possiamo dire che quell’espiazione che il Figlio ha fatto per noi una sola volta, una volta per tutte, viene rinnovata, ripresentata, attualizzata, nella Confessione, in cui vengono rimesse le nostre colpe. 

Ma perché è possibile che i nostri peccati siano perdonati? Perché Cristo l’ha fatto una volta per tutte, e ha affidato quel ministero agli Apostoli, perché riconciliassero gli uomini con Dio. Quindi il ministero della riconciliazione è una manifestazione di quest’opera di soddisfazione vicaria del Figlio. L’opera che Gesù ha fatto una sola volta, viene consegnata agli Apostoli affinché sia perpetuata nei secoli, applicandone i frutti a tutti gli uomini che si accostano, con buona volontà, a questo Sacramento.

È nell’ottica della riconciliazione con il Padre che dobbiamo capire il versetto 20 – «Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» –, e quindi il versetto 21 – «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» –. Paolo parla ancora in quanto Apostolo, ambasciatore per Cristo, avendo ricevuto il ministero della parola della riconciliazione in nome di Cristo. Dunque è Dio stesso che esorta alla riconciliazione attraverso il ministero apostolico e sacerdotale.

È evidente, allora, che il testo non sta dicendo che Cristo è diventato peccatore o che ha dovuto sperimentare il peccato nella sua carne, affatto; altrimenti come avrebbe potuto redimerlo? 

Gesù, l’unico innocente

Sarebbe davvero un assurdo il dover postulare un peccato in Cristo per essere poi capace di perdonarlo e di espiarlo; diverrebbe un circolo vizioso, perché alla fine si rimarrebbe nel peccato, che non sarebbe mai perdonato. Questo è un po’ il vicolo cieco imboccato da Lutero, ma di lui parleremo in seguito. 

Vorrei a questo punto citare alcuni altri passi del Nuovo Testamento in cui è chiaro che Gesù non ha commesso alcun peccato, ma è l’unico innocente, quindi l’unico capace di giustificarci e di renderci giusti, proprio perché non ha niente a che fare con il peccato, se non per il fatto che Egli ha voluto prenderne su di sé le conseguenze. Egli ha dovuto soffrire, si è abbassato per farsi uomo, ha preso la nostra carne proprio per sperimentare la sofferenza, per patire per noi, per redimerci, per giustificarci. 

Cominciamo dalla prima Lettera di Pietro, il primo papa: «Egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca. [...]. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (1Pt 2,22.24-25a).

Un altro testo molto bello e importante è riportato da san Giovanni nel suo Vangelo, ovvero la risposta che Gesù diede ai farisei vincendo un’altra diatriba con loro: «Chi di voi può convincermi di peccato?» (Gv 8,46).

Appunto, chi può accusare Gesù di essere un peccatore, di aver commesso un peccato? Nessuno! Infatti, tra tutte le varie accuse che hanno mosso al Signore, non c’è mai quella di essere un peccatore, perché questo non potevano assolutamente dirlo. 

L’accusa più infame, per la quale è stato condannato a morte, era il fatto che Gesù, pur essendo uomo, si faceva Dio: una cosa inaccettabile per i giudei. Eppure è la verità che Cristo ha testimoniato fino alla fine, fino alla sua morte in croce: essere il Figlio di Dio, uguale a Dio, Dio da Dio, Luce da Luce. 

Cristo è l’Agnello senza macchia che toglie il peccato del mondo. È chiaro, dunque, che non c’è nessun peccato in Cristo e che Cristo è il nostro Redentore. 

Ma allora da dove nasce questa tendenza a leggere il testo paolino in questione in modo surrettizio, in modo scorretto, facendo dire a san Paolo che, in qualche modo, Cristo è diventato lui stesso un peccatore, per poter sperimentare fino in fondo la nostra debolezza, la nostra fragilità? Qual è la radice del problema? Ne parleremo nella prossima puntata. (continua)

 

Nota

1) La pericope è un determinato passaggio scritturistico.

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