SPIRITUALITÀ
Il figlio di molte lacrime: la conversione di sant’Agostino
dal Numero 33 del 23 agosto 2020
di Aurora De Victoria

Il 28 agosto la Chiesa Cattolica celebra la memoria di uno dei suoi più grandi figli: dottore della Fede, scrittore ecclesiastico più citato nel Catechismo, personalità capace di attrarre a sé e a Dio innumerevoli persone di ogni tempo ed estrazione. La sua santità è la prova di ciò che Dio può realizzare quando l’uomo si lascia vincere dalla Sua grazia.

«Non sapevo cosa rispondere a queste tue parole: “Lèvati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo t’illuminerà” (Ef 5,14); dovunque facevi brillare ai miei occhi la verità delle tue parole, ma io, pur convinto della loro verità, non sapevo affatto cosa rispondere, se non, al più, qualche frase lenta e sonnolenta: “Fra breve”. “Ecco, fra breve”. “Attendi un pochino”. Però quei “breve” e “breve” non avevano breve durata, e quell’“attendi un pochino” andava per le lunghe. Invano mi compiacevo della tua legge secondo l’uomo interiore, quando nelle mie membra un’altra legge lottava contro la legge del mio spirito e mi traeva prigioniero sotto la legge del peccato insita nelle mie membra. [...]. Chi avrebbe potuto liberarmi, nella mia condizione miserevole, da questo corpo mortale, se non la tua grazia per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore? (cf. Rm 7,22-25)».

Sant’Agostino d’Ippona, ripensando al tempo in cui giaceva avvinto dai lacci dell’impurità, scrisse più tardi queste parole accorate. Sentiva con tutte le fibre del cuore di dover rompere con il peccato, ma le esigenze della carne sembravano rimproverargli i propositi di una vita secondo lo spirito. Chi lo avrebbe liberato da quella condizione di morte?

Gli errori di Agostino

Agostino nacque il 13 novembre 354 a Tagaste, nell’attuale Algeria. Suo padre si chiamava Patrizio, modesto proprietario terriero. Monica, sua madre, era una donna pia e profondamente cristiana. Al tempo si usava impartire il Battesimo in età adulta, così, anche per Agostino, si attese ad amministrargli il Sacramento dell’iniziazione cristiana. Sin dalla più tenera età rivelò un ingegno assai poco comune, e subito si nutrirono verso di lui speranze di grandezze mondane. Dagli 11 ai 16 anni si trasferì a Madaura per gli studi superiori. In quella città la vita sociale era piuttosto frivola, e Agostino presto se ne lasciò influenzare, com’egli stesso afferma, preferendo dire bugie e disubbidire ai maestri «per amore del gioco, amando le vittorie esaltanti nelle gare e lo strisciare di favole irreali nelle mie orecchie, che vi eccitava un più ardente prurito. La stessa curiosità mi sfavillava ogni giorno più negli occhi e mi trascinava agli spettacoli, giochi di adulti».

Nell’estate del 369 Agostino lasciò Madaura e tornò a Tagaste. In quel periodo di ozio, appena sedicenne, «i rovi delle passioni crebbero oltre il mio capo senza che fosse là una mano a sradicarli». Si allontanava sempre più da quel Dio che aveva cominciato a conoscere, ma che non aveva ancora conosciuto intimamente per la grazia del Battesimo. La mamma, intuito il pericolo in cui correva l’anima del figlio, «mi chiedeva – come ricordo dentro di me l’incalzante sollecitudine dei suoi ammonimenti! – di astenermi dagli amorazzi e specialmente dall’adulterio con qualsiasi donna. Io li prendevo per ammonimenti di donnicciola, cui mi sarei vergognato di ubbidire». Allora sembrava a lui che nessuno dal Cielo accorresse a sfilarlo dalle prese di quei mali spirituali, che lo stesso Dio non si curasse dell’allontanarsi di quella pecorella, ma in seguito, ormai pervaso della grazia di Dio, riconobbe che quegli ammonimenti “di donnicciola”, «invece venivano da te: io ignaro pensavo che tu tacessi e lei parlasse, mentre tu non tacevi per me con la sua voce, sebbene in lei io disprezzassi te, io, io, figlio suo, figlio dell’ancella tua (Sal 115,16) e servo tuo».

Quante volte il Signore ci parla, non solo nell’intimo del cuore, ove non è possibile fuggire la sua voce, ma anche attraverso mezzi umani o materiali, che Egli rende strumenti del suo amore, per richiamarci alle sue vie. Ma le passioni sanno renderci ciechi e sordi, ostinati a ritenerlo così assente.

Dal 370 al 374 si era trasferito a Cartagine, per proseguire gli studi, grazie agli aiuti di un ricco signore di Tagaste, Romaniano. Così Agostino giunse in quella città «dove la caldaia degli amori peccaminosi bolliva da ogni parte». Si entusiasmò degli spettacoli teatrali, le cui scene immorali inquinavano il suo cuore, ormai proteso verso i piaceri sensuali: «Amare ed essere amato mi riusciva più dolce, se potevo godere anche del corpo della persona amata».

Dopo i primi mesi di smarrimenti, Agostino prese con sé una ragazza, quasi come moglie: «Me l’aveva fatta scoprire la mia passione vagabonda: però una donna sola, e a lei per di più mi mantenevo fedele». Nell’estate del 372 ebbe da lei un figlio: Adeodato. In quella città corrotta, la fedeltà di Agostino a quella “sola donna” dimostra che un residuo di onestà risiedeva nel fondo della sua anima smarrita.

Mirare più in alto

Lo studio dell’Ortensio di Cicerone risvegliò in lui sentimenti più nobili, fino ad allora quasi del tutto sepolti. «Quel libro – scrisse in seguito – cambiò i miei sentimenti, fece diversi i miei voti e i miei desideri. Improvvisamente mi diventò vile ogni umana speranza... con ardore incredibile cominciai a bramare la sapienza... decisi di dedicarmi ad essa».

Cicerone lo ammoniva che i piaceri materiali e le voluttà del corpo impediscono all’uomo il raggiungimento della sapienza. Ma il nome di Cristo in quelle pagine non c’era e Agostino, per qualche ragione ispiratagli dall’Alto, da Colui che, dunque, non restava inerme dinanzi al suo traviamento, decise di iniziare a studiare la Bibbia, che trovò però troppo oscura al suo intelletto, offuscato dalla superbia e dalle sue abitudini peccaminose.

L’arte diabolica, che, in lui, aveva già conquistato una preda preziosa, gli presentò la seducente dottrina manichea. Aveva allora 19 anni. Agostino entrò a far parte di quella setta, cui appartenne per ben 9 anni. Quella dottrina sembrava liberarlo, in parte, dai sensi di colpa: «Ero d’opinione non essere noi che pecchiamo, ma un’altra non so quale natura esistente in noi; e nella mia superbia, mi compiacevo di essere senza colpa e di non dovermi confessare autore dei mali da me commessi... Vero è che quel mio credere di non essere peccatore era un peccato più difficile a guarirsi di qualunque altro». Vi trascinò anche vari amici, come Romaniano, Alipio, Onorato.

Tornò finalmente a Tagaste, con la sua donna e il figlio. Cominciò il suo ufficio di insegnante. In quel periodo un episodio quasi spaventa riguardo all’ostinazione di sant’Agostino. Un suo carissimo amico si ammalò gravemente. Non sembrando esservi speranza di guarigione, fu battezzato senza che egli ne avesse coscienza. Poi si riebbe. Appena poté parlare con lui, Agostino si mise a ridere di quel Battesimo. Il malato inorridì di quelle risa e lo pregò di smettere. Pochi giorni dopo tornò la febbre e l’amico morì. Per Agostino fu un dolore straziante, insopportabile. Fuggì da Tagaste per non vedere più quei luoghi che gli ricordavano quell’amicizia perduta. Tornò a Cartagine alla ricerca di una posizione più elevata. Divenne professore di retorica in una scuola pubblica. Si dedicò con passione allo studio della geometria, della musica, dell’aritmetica, leggendo un gran numero di libri anche molto elevati, senza aiuto di maestri. S’interessò di astrologia.

I dubbi sulla dottrina manichea si facevano sempre più pressanti in lui, che ne scorgeva lati oscuri. Ebbe modo di verificare molti aspetti deboli di essa. Gli fu detto che un grande capo della consorteria manichea, Fausto di Milevi, avrebbe saputo sciogliere ogni suo dubbio. Quell’incontro, invece, lo deluse profondamente.

Si recò a Roma nel 383, dove alloggiò nella casa di un ricco. Quasi subito una grave malattia lo colpì e ridusse in fin di vita. Incredibile, ma neanche in tale frangente chiese il Battesimo. Guarì. In quel soggiorno ebbe modo di incontrare diversi manichei e constatare ulteriormente la fallacia della loro dottrina. Si persuase di non poter a lungo aderire alle dottrine manichee. Riuscì a ricevere la cattedra a Milano, allora capitale.

L’alba radiosa della conversione

Intanto Monica, la mamma, non faceva che pregare e versare calde lacrime al cospetto di Dio per impetrare la conversione di quel figlio tanto amato e così distante dal Bene. Quando ancora abitava in Africa, ella si rivolse ad un vescovo cattolico perché persuadesse Agostino dei suoi errori. Il vescovo non volle accettare: riconosceva troppa ostinazione in quel giovane che si era gonfiato di quella dottrina eretica e aveva a sua volta convinto diverse persone attraverso le sue polemiche; qualsiasi colloquio sarebbe risultato inutile. Le disse: «Lascialo stare dov’è. Prega soltanto il Signore per lui. Scoprirà da se stesso, leggendo, dove sia il suo errore e quanto sia grande la sua empietà». Alle insistenze della pia madre, poi, la congedò seccato, dicendole: «Possa tu vivere come non può essere che il figlio di tante lacrime perisca». Ella accolse queste parole come rivelatele dal Cielo. E così fece: preghiera e lacrime senza sosta ma, soprattutto, senza dubitare di Dio.

Giunto a Milano nell’autunno 384, Agostino incontrò colui che sarebbe stato la sua stella polare in quella navigazione priva di orientamenti sicuri: il vescovo sant’Ambrogio. Così racconta Agostino: «Quell’uomo di Dio mi accolse come un padre e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa». Tuttavia frequentava assiduamente le sue istruzioni, ammagliato dalla sua eloquenza e dalla sua sapienza. Quelle sante prediche, però, non potevano affatto restargli indifferenti. Fu una grande scoperta per lui il sentire l’interpretazione allegorica o spirituale che dava il santo Vescovo della Bibbia, specialmente delle pagine che i manichei rifiutavano come scandalose o ridicole; lo colpiva l’insistere del Vescovo sulla natura spirituale di Dio e sulla realtà dell’uomo creato a immagine di Dio, non perché anche Dio abbia un corpo, ma perché l’uomo ha un’anima spirituale, come Dio, che è purissimo Spirito. All’udire quelle spiegazioni, constatandone la difendibilità, Agostino comprese d’aver fino ad allora abbaiato contro una Fede che non conosceva e provava vergogna di se stesso. Decise allora di aderire alla Chiesa Cattolica come catecumeno.

Monica, intanto, era riuscita a raggiungerlo a Milano ed è facile immaginare quale gioia abbia provato nell’apprendere dal figlio la sua decisione di entrare nella Chiesa Cattolica. Interessantissimo è il racconto di sant’Agostino della reazione della mamma a tale notizia: «Non sobbalzò di gioia come alla notizia di un avvenimento imprevisto: da tempo era tranquilla per questa parte della mia sventura, ove mi considerava come un morto, ma un morto da risuscitare con le sue lacrime versate innanzi a te e che ti presentava sopra il feretro del suo pensiero affinché tu dicessi a questo figlio della vedova: “Giovane, dico a te, alzati”, ed egli tornasse a vivere e cominciasse a parlare, e tu lo restituissi a sua madre (cf. Lc 7,12-15). Nessuna esultanza scomposta commosse dunque il suo cuore alla notizia che quanto ti chiedeva ogni giorno, fra le lacrime, di compiere, si era compiuto».

Quanta ammirazione dovrebbe destare nella nostra anima la fede di questa donna. Fede che non venne mai meno lungo i 30 anni trascorsi nell’attesa di ricevere la sospirata grazia. Quanta differenza tra lei e noi, così tanto impazienti di voler ricevere grazie dal Cielo a basso prezzo e in breve tempo, quando le grazie, e soprattutto le grazie di conversioni, esigono molto sacrificio. Come diceva san Pio da Pietrelcina, le anime costano sangue e lacrime.
La chiamata

Agostino era uno spirito assetato di verità. Questa la ragione dei suoi molteplici studi e approfondimenti, delle sue ricerche, mai sazio di discussioni. Il suo intelletto era finalmente giunto alla Verità della dottrina cattolica. «Sotto il lavorio della tua mano delicatissima e pazientissima, Signore, ora il mio cuore lentamente prendeva forma». Comprese che la fede non è una cosa affatto assurda o irragionevole; considerò quanto numerosi sono i fatti a cui crediamo senza vederli, senza assistere ai loro svolgimenti: avvenimenti storici, notizie di luoghi o città mai visitati di persona; cose per cui necessariamente diamo credito agli amici, ai medici, a persone di ogni genere. A nulla potremmo credere senza prestare fede. Perché mai non fidarsi della rivelazione di Dio?

Tuttavia, come è comprensibile – non si può, infatti, pretendere di purificarsi tutto in una volta da un passato di abitudini sensuali –, il cuore di Agostino altalenava or qua, or là. «Differivo di giorno in giorno l’inizio della vita in te [...]. Per amore della vita felice temevo di trovarla nella sua sede e la cercavo fuggendola». Probabilmente Dio gli parlava già nel segreto del suo cuore di una chiamata assoluta a seguirlo; gli suggeriva l’incanto di una vita completamente casta e pudica, a suo servizio e per suo amore. «Mi sembrava che sarei stato troppo misero senza gli amplessi di una donna; non ponevo mente al rimedio che ci porge la tua misericordia per guarire da quell’infermità, poiché non l’avevo mai sperimentato. Pensavo che la continenza si ottiene con le proprie forze, e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto, da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. E tu l’avresti concesso, se avessi bussato alle tue orecchie col gemito del mio cuore e lanciato in te la mia pena con fede salda».

Il pungolo della carne

Intanto Monica insisteva con lui perché prendesse moglie. Le leggi imperiali non gli permettevano di sposare quella donna, sua convivente ormai da 14 anni, della quale Agostino mai riporta il nome nelle sue Confessioni. Si trovò una fanciulla adatta e si giunse all’atto bilaterale della promessa. Perché non risultasse un ostacolo alle nozze, fu «strappata dal fianco – com’egli stesso si esprime – la donna con cui ero solito coricarmi, il mio cuore, a cui era attaccata, ne fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo». Essa partì per l’Africa, facendo voto a Dio di non conoscere più altro uomo e lasciando con Agostino il figlio nato dalla loro unione illegittima.

Agostino, incapace di vivere senza la passione che lo avvinghiava, non riuscì a pazientare attendendo i due anni che lo separavano dalle nozze, per cui prese con sé un’altra donna, che alimentò “la malattia della sua anima”. Chi lo avrebbe liberato da una tale malattia?

Intanto Agostino scioglieva sempre più altri dubbi riguardo alla Fede e il suo intelletto sempre più aderiva alla Verità. Sentiva spesso anche parlare di anime che si erano dedicate totalmente a Dio con una vita casta, rinunciando ai piaceri di una vita coniugale. Che vergogna per lui, grande intellettuale, non riuscire a comprendere né a trovare la forza di una simile riuscita. Differiva ogni giorno di più quel santo proposito che il Cielo già da tempo gli ispirava.

Guerra all’ultimo sangue

Un giorno Agostino ricevette nella casa di Milano in cui abitava con l’amico Alipio, la visita di un certo Ponticiano, loro compatriota. Questi prese a raccontare «la storia di Antonio, un monaco egiziano, il cui nome brillava in chiara luce fra i tuoi servi, mentre per noi fino ad allora era oscuro». Narrò ai due la storia di quell’uomo e si dilungò poi parlando dei monaci, della loro vita tanto gradita a Dio, della solitudine feconda dell’eremo, di cui Agostino e Alipio nulla conoscevano. Prese a raccontare che a Treviri, due camerati dell’imperatore, passeggiando insieme, entrarono in una capanna abitata da alcuni servitori del Signore, e vi trovarono un libro ov’era scritta la vita di Antonio. Uno dei due cominciò a leggerla e ne restò ammirato e infuocato. Desiderò ardentemente di abbracciare quella vita, preferendo l’amicizia sincera di Dio a quella interessata dell’imperatore. Ruppero con le loro ambizioni. Decisero di votarsi alla Vita eterna. Le fidanzate, saputo l’accaduto, consacrarono anch’esse la loro verginità a Dio.

Agostino ascoltò il racconto di Ponticiano. Si trovava intimamente “ripiegato su se stesso”, colmo di vergogna fino al midollo. Gli sembrava di vedere lo stato della sua anima come in uno specchio: tutta deforme, coperta di macchie e di piaghe. «Visione orrida; ma dove fuggire lungi da me?». Come lo colmavano di ammirazione quei giovani, capaci di una simile scelta! Ricordò che a 19 anni, spinto alla ricerca della sapienza in seguito alla lettura di Cicerone, chiese al Signore la grazia della purezza, ma la volontà vigliaccamente si ritraeva: «“Dammi, ti dissi, la castità e la continenza, ma non ora”, per timore che, esaudendomi presto, presto mi avresti guarito dalla malattia della concupiscenza, che preferivo saziare». Aveva creduto che la ragione per cui differiva il momento di seguire unicamente Dio fosse la mancanza di una luce sicura, su cui orientare il suo corso. Ma «era venuto il giorno in cui mi trovavo nudo davanti a me stesso e sotto le rampogne della mia coscienza». Era ormai persuaso della verità. Allora perché non si decideva?

Così andava ragionando Agostino, con il cuore turbato dalla vergogna. Ponticiano forse si accorse che era giunto il momento di ritirarsi. «Egli uscì e io rientrai in me». Cominciò una violenta guerra contro se stesso, non aveva più scuse. Sconvolto nell’anima e in viso, si precipitò da Alipio esclamando: «Cosa facciamo? Cosa significa quanto hai udito? Alcuni indotti si alzano e rapiscono il cielo, mentre noi con tutta la nostra dottrina insensata, ecco dove ci avvoltoliamo, nella carne e nel sangue. O forse, poiché ci precedettero, abbiamo vergogna a seguirli e non abbiamo vergogna a non seguirli almeno?». Alipio assisteva attonito alla scena, in silenzio.

Uscì in giardino. Agostino ardeva, una rissa si era scatenata nel suo interno. Faceva paura. Ma bisognava attendere che quel travaglio, che sembrava finalmente l’ultimo e decisivo, portasse al sospirato parto. Solo Dio ne conosceva l’esito. Alipio lo seguiva, ma non gli recava disturbo.

Agostino gridava a se stesso una domanda essenziale: «Qual è l’origine di quest’assurdità? E quale la causa? Lo spirito comanda al corpo, e subito gli si presta ubbidienza; lo spirito comanda a se stesso, e incontra resistenza. [...]. Lo spirito, dico, comanda di volere, non comanderebbe se non volesse, eppure non esegue il suo comando. La verità è che non vuole del tutto, quindi non comanda del tutto. Comanda solo quel tanto che vuole, e il comando non si esegue per quel tanto che non vuole, poiché la volontà comanda di volere, e non ad altri, ma a se stessa. E poiché non comanda tutta intera, non avviene ciò che comanda; se infatti fosse intera, non si comanderebbe di essere, poiché già sarebbe. Non è dunque un’assurdità quella di volere in parte, e in parte non volere; è piuttosto una malattia dello spirito, sollevato dalla verità ma non raddrizzato del tutto perché accasciato dal peso dell’abitudine. E sono due volontà, poiché nessuna è completa e ciò che è assente dall’una è presente nell’altra [...]. Da questa volontà incompleta e incompleta assenza di volontà nasceva la mia lotta con me stesso, la scissione di me stesso».

Il demonio gli presentava quelle abitudini sensuali, come se esse stesse gli domandassero e dicessero: «“Tu ci congedi?”, e: “Da questo momento non ti sarà più concesso di fare questo e quell’altro eternamente” [...]. “Pensi di poterne fare a meno?”». Dall’altra parte, invece, gli si svelava «la casta maestà della Continenza, limpida, sorridente senza lascivia». Gli esempi di innumerevoli anime gli mostravano come in esse la continenza «non era affatto sterile, bensì madre feconda di figli: i gaudi ottenuti dallo sposo, da te, Signore». Quella continenza sembrava dirgli: «Non potrai fare anche tu ciò che fecero questi giovani, queste donne? E gli uni e le altre ne hanno il potere in sé medesimi o nel Signore Dio loro? Il Signore Dio loro mi diede ad essi. Perché ti reggi, e non ti reggi, su di te? Gèttati in Lui senza timore. Non si tirerà indietro per farti cadere. Gèttati tranquillo, egli ti accoglierà e ti guarirà».

Era quasi la fine. Anzi, l’inizio. Agostino finalmente, domandava a se stesso: «Per quanto tempo, per quanto tempo il “domani e domani”? Perché non subito, perché non in quest’ora la fine della mia vergogna?». Ad un tratto udì una voce, come di fanciullo o fanciulla, che diceva cantando e ripetendo più volte: «Prendi e leggi, prendi e leggi». Non comprese da dove venissero quella voce. Arginata la piena delle lacrime, si alzò, corse in casa, si accostò al tavolo e prese l’unico libro che vi si trovava: le Lettere di san Paolo. Lo aprì a caso e lesse: «“Non nelle crapule e nell’ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze” (Rm 13,13ss). Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono». Rivelò ad Alipio – che intanto aveva ritenuto opportuno lasciare solo l’amico – l’accaduto. Ma egli confidò a sua volta ciò che anche nel suo animo accadeva. Chiese di vedere quel libro e proseguì la lettura. Il seguito diceva: «E accogliete chi è debole nella fede» (Rm 14,1). Anche Alipio era stato conquistato al medesimo ideale.

Il santo che divenne

Qui finisce la storia di Agostino e ha inizio la storia di un santo.

I due amici, insieme ad Adeodato e altri, ricevettero a Milano il Santo Battesimo la notte di Pasqua, 24-25 aprile 387. «Fummo battezzati – scrisse più tardi – e fuggì da noi ogni rimorso e inquietudine per la vita passata... Quanto piansi per la commozione, assistendo agli inni e ai canti soavemente echeggianti nella sua Chiesa o Dio».

In seguito alla morte del figlio (389-390), fu ordinato sacerdote nel 391 ed egli stesso fondò un monastero provvedendo a scrivere una regola. Presto seguì un’analoga istituzione femminile. Fu vescovo, grande scrittore, apologeta contro le eresie.

Nelle conversazioni familiari sant’Agostino era solito dire che nessuno, per quanto irreprensibile sia stata la sua vita, dovrebbe affrontare il momento della morte senza una degna e adeguata penitenza. Così anch’egli, negli ultimi giorni della sua malattia, fece scrivere su grandi fogli i salmi penitenziali, facendoli appendere sul muro di fronte al letto sul quale giaceva. Continuamente li leggeva e piangeva. Morì santamente, ricco di meriti, il 28 agosto 430, all’età di quasi 76 anni.

Dio, nostra speranza e nostra certezza

Sant’Agostino ha dimostrato che ciò che gli pareva ineseguibile è divenuto possibile. Bisognava solamente finirla di confidare in se stesso e nelle proprie forze, e affidarsi unicamente a Dio onnipotente. Quando è Dio a chiederci qualcosa, è Lui stesso a donarcene la grazia, quanto è vero che Egli non ci richiede mai nulla che superi le nostre forze, altrimenti la sua richiesta sarebbe un’assurdità e un’ingiustizia. Se non abbiamo ancora rotto con il peccato, qualunque esso sia, con i nostri egoismi, con le nostre passioni, significa che non abbiamo ancora riposto in Lui tutta la nostra confidenza e la nostra speranza. La nostra conversione avrà luogo quando realizzeremo in noi le condizioni che realizzarono quella di sant’Agostino: «Ciò avvenne quando non volli più ciò che volevo io, ma volli ciò che volevi tu».

Affidiamoci a Dio, interamente. Affidiamo a Lui i nostri propositi e la riuscita degli stessi. Affidiamoci al suo amore paterno attraverso il Cuore materno dell’Immacolata. Se presenteremo a Lui il sacrificio della nostra volontà, ci sarà dato ciò che ci è promesso: «Saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,3). Dunque, «figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18).

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