PASQUA
Il Sepolcro vuoto: Verità della Morte e verità della Speranza
dal Numero 15 del 16 aprile 2017
di Corrado Gnerre

Affermava Gustave Thibon: «Bisogna sostituire alle menzogne che fanno vivere, le verità che fanno morire». Una di queste verità è il Sepolcro vuoto di Cristo, che indica l’ineluttabilità della morte, ma anche la Soluzione di essa.

Il filosofo cattolico Gustave Thibon (del cui pensiero già abbiamo parlato in questo Settimanale) in una sua opera dice: «L’eternità non è la negazione del tempo, ne è la fidanzata».
L’immagine è molto suggestiva, ma soprattutto vera. L’eternità, e quindi anche la dimensione soprannaturale, non si pongono alternativamente al tempo e alla dimensione naturale. Ne costituiscono piuttosto il compimento. Un compimento che si fa significato, nel senso che la temporalità trova il suo senso e la sua aspettativa nell’eternità; ma anche in un senso contrario, ovvero che l’eternità in un certo qual modo viene “generata” dal tempo. In un certo qual modo, perché non si tratta di affermare che essa sarebbe creata dal tempo, quanto che per l’uomo viene generata dalle scelte che l’uomo stesso compie nel tempo. Semplifico: relativamente a come l’uomo si comporta, alle scelte che fa, a come gestisce la sua vita terrena, egli “crea” il suo destino eterno. Questa è una verità indiscussa del Cattolicesimo. Inferno, Purgatorio e Paradiso non sono predeterminati da una volontà parziale di Dio, bensì da come l’uomo corrisponde alla Grazia.
       Fatta questa premessa, torniamo alle parole di Thibon, ovvero che l’eternità non è la negazione del tempo, ma la sua “fidanzata”. Quindi, la sua “compagna”.
      C’è un segno visibile che testimonia in maniera evidente questa inestricabilità tra tempo ed eternità. È il Sepolcro vuoto di Cristo. Esso è il segno di una Presenza, perché il Sepolcro è lì e lo si può venerare, ma nello stesso tempo è anche segno di una proiezione verso l’eterno, perché il suo essere vuoto dice chiaramente che la vita terrena non finisce. E non finisce integralmente: continuerà non solo nella dimensione spirituale, nel senso che continuerà a vivere solo l’anima, ma continuerà a vivere anche il corpo. Integrità dell’umano: anima ma anche corpo!
Nel Sepolcro di Cristo è proprio il vuoto ad assumere un paradossale significato. Il concetto di “vuoto” di per sé richiama l’assenza e quindi il nulla. Un tale richiamo lo troviamo nel linguaggio di tutti i giorni, ma anche in quello “religioso”. Si pensi alle cosiddette spiritualità orientali (che oggi – ahinoi – vanno tanto di moda) dove tutto poggia sul “vuoto”, cioè sulla dissoluzione dell’individualità. Nel Sepolcro di Cristo, invece, il “vuoto” diventa pienezza, completezza e perennità.
Diventa pienezza, perché l’essere vuoto attesta che Colui che ha detto di sé: «Io sono la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14), è veramente tale. In Lui la morte non ha avuto l’ultima parola. In Lui la morte è stata sconfitta.
Diventa completezza, perché l’essere vuoto attesta che l’annuncio cristiano non è riducibile ad una proposta o lettura filosofica dell’esistente, bensì è una Parola di Vita, che risolve ogni questione umana e perfino la morte.
Diventa perennità, perché l’essere vuoto attesta che il tempo non si giudica con se stesso, che esso non è un trascorrere senza senso, che il suo percorrere trova giusto approdo. Il tempo si trasforma in eternità, come l’acqua di un fiume che scorre, ma quando poi sfocia nel mare si arresta per placidamente ondeggiare nella calma della bonaccia.
Torniamo al Filosofo da cui siamo partiti. Sempre Thibon in un suo libro afferma: «Bisogna sostituire alle menzogne che fanno vivere, le verità che fanno morire». Sembra un paradosso, in un certo senso lo è, ma è un paradosso profondamente vero.
L’uomo deve porsi dinanzi all’ineluttabilità del suo destino, che è quello di morire. Non c’è verità più vera (chiedo scusa del gioco di parole) del fatto che l’uomo debba morire e che questo esito rimane lì, inesorabile, ad interpellarlo continuamente. È solo questa consapevolezza che rende l’uomo veramente tale. Altrimenti si entra nell’illusione idolatrica di credere che basti vivacchiare, che basti il finito e il precario per riempiere adeguatamente l’esistenza.
Il Sepolcro di Cristo è proprio una “verità che fa morire” nel senso “thiboniano”. È la Verità che pone la Morte come esito che s’impone per le nostre scelte, ma è anche la Verità che pone la Speranza come soluzione; quella Speranza che è certezza che il tempo trova senso e approdo solo nell’Eterno.

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