FEDE E CULTURA
La croce come sacrificio
dal Numero 38 del 27 settembre 2015
di Paolo Risso

Gesù Cristo non ha lasciato indifferenti gli uomini del suo tempo né i posteri. Da subito ha attirato l’amore delle anime o il loro odio. Ha affascinato e influenzato persino gli intellettuali dell’Impero Romano, ispirando Seneca e i suoi discepoli.

Per mezzo dell’Apostolo Paolo, Gesù ha pure affascinato Seneca, l’illustre Filosofo e consigliere di Nerone, e gli amici stoici del suo salotto. Attorno al 58 d.C. di Gesù già si parlava nei giardini imperiali (gli “horti sallustiani”), come scrive Seneca nella sua Prima Lettera a Paolo. Gesù da subito ha attirato a Sé i cuori. Gesù è presente negli scritti di Seneca, difficile negarlo.

Regolo “crocifisso”

Nell’Epistula 81,10 Seneca riporta un pensiero che colpisce: «Il sapiente gode più nel dare che nel ricevere». Il quale dissolve ogni dubbio, perché esso è letteralmente una citazione di san Paolo che salutando i fratelli di Efeso, prima di partire, ricorda loro una parola di Gesù non riportata dai Vangeli: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Seneca ha sentito questo dalla voce di san Paolo o addirittura ha letto gli Atti, che furono scritti nel 62 d.C.? È possibile o pressoché certo.
Nell’Epistula 88,30 Seneca scrive: «L’umanità di ogni uomo [humanitas] vieta la superbia nei rapporti sociali, vieta l’avarizia; con tutti si mostra amabile e cordiale nelle parole, nelle azioni, nei sentimenti; non c’è male che non stimi suo, e dei suoi beni ama soprattutto quello che può giovare al prossimo». Ma questo non risente forse dell’“inno alla carità” di san Paolo, nella 1Cor 13,4-8: «La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della Verità»?
Non sappiamo che cosa d’altro, oltre le Lettere di san Paolo, Seneca abbia letto dei testi cristiani: possibilissimo e molto probabile che avesse letto il Vangelo di san Marco, scritto a Roma tra il 42 e il 50, e diffuso sicuramente, come diremo a suo tempo, nei circoli culturali dell’Urbe. È certo che Seneca conobbe il Cristianesimo, non fosse altro perché era un intellettuale aperto a tutte le novità, che apparivano a Roma e nel suo vastissimo Impero, ormai cosmopolita. «Roma – scriverà Rutilio Namaziano – già aveva cominciato a fare dell’Orbe [del mondo allora conosciuto] un’unica Urbe» (o una sola città, o quasi).
Ma c’è di più. È notissimo a tutti che il supplizio della croce, derivato, pare, dai Persiani o dai Parti, e applicato con macabra soddisfazione dai conquistatori romani, come deterrente, agli schiavi malfattori e a chi veniva giudicato meritevole di questa orribile pena, era ritenuto la più grave infamia. Cicerone nelle sue orazioni contro Verre (le “Verrinae”) definisce la Croce: «Summum extremumque supplicium» (il sommo ed estremo supplizio).
Ora Seneca in due passi delle sue Consolationes evocò in modo velato la crocifissione e il sepolcro vuoto di un “Giusto” che assumeva, diversamente dalla cultura corrente, il senso non più dell’infamia, ma del sacrificio per gli altri. L’illustre Storica del Cristianesimo, Marta Sordi, nel suo testo Seneca e i cristiani, racconta che un altro Scrittore dell’epoca «Silio Italico nei suoi “Punica”, rivela un ripensamento della croce, che da strumento per una morte infamante, diventa strumento di glorioso martirio e simbolo di vittoria sugli aguzzini cartaginesi per il più grande eroe romano, Attilio Regolo» (p. 122).
Nell’Epistula 98,12 e nel De Providentia III, 9-10, lo stesso Seneca è il primo a parlare di crocifissione per Attilio Regolo, il Comandante romano caduto prigioniero dei Cartaginesi, al centro della I guerra punica (264-241 a.C.). Collegando il martirio di Regolo alla croce, Seneca così trasfigura un supplizio ignominioso in un martirio eroico, di gloria.
È qualcosa di stupefacente, un “novum”, una novità che entra nella cultura romana. Da chi poteva venire, se non da Gesù, per il quale subire la croce era dare la vita per la salvezza del mondo? Solo da Lui, il Crocifisso del Calvario, tramite san Paolo, che affermava di conoscere solo Gesù e Lui crocifisso (cf. 1Cor 2,2), poteva venire un’idea così: per cui l’infamia diventa sacrificio di redenzione.
Sempre nel I secolo, lo Scrittore storico Marco Manilio presenta un nuovo modo di interpretare il mito di Andromeda, dove la ragazza viene crocifissa ed ella accetta il supplizio con dignità, nobiltà e pudore. «È una novità inusitata – commenta Ilaria Ramelli – dal momento che fino ad allora la croce aveva avuto un connotato ignobile e osceno».
In una parola, è Gesù che con la sua novità assoluta, fin da subito, penetra nella cultura alta di Roma, perché il destino di Roma era ed è quello di reggere i popoli con la Verità, la Carità e la Croce di Lui, il divino Maestro crocifisso e risorto, l’unico Salvatore e Re dell’umanità. L’“Impero della Lupa” sui popoli doveva presto diventare l’“Impero dell’Agnello divino”, Gesù!

Ercole, a immagine di Gesù

Del tempo di Seneca c’è una Tragedia, Hercules Oetaeus, che ha analogie forti con il racconto evangelico della Passione di Gesù, segno di quanto fascino aveva la storia di Gesù per Seneca – o forse per un suo discepolo (lo Pseudo-Seneca, come inclina a pensare Ilaria Ramelli) – e per l’ambiente stoico del I secolo.
Il protagonista della Tragedia è l’antico eroe Ercole, ma rimodellato sulla traccia di Gesù, fino a rappresentare di Ercole la sua morte e la sua risurrezione. Morte e risurrezione, per il paganesimo (e anche per noi oggi) è novità assoluta, tant’è vero che i sapienti dell’Areopago di Atene a Paolo che parla loro di un Maestro morto e risorto, dicono con aria beffarda: «Su questo ti sentiremo un’altra volta» (At 17,32). Le parole “crocifissione-morte-risurrezione” sono quanto di più cristologico esista.
Così nell’Hercules Oetaeus, Ercole invoca sovente il “Padre” (Pater noster), e alla fine sottostà a un tradimento simile a quello di Giuda verso Gesù. Anche Ercole si crede abbandonato dal Padre Celeste, prega e grida sul luogo della sua morte, muore mentre le tenebre coprono la terra e il terremoto la scuote. Accanto a lui morente, c’è sua madre e lui conclude la vita con il grido “peractum est”, simile al “Consummatum est” di Gesù.
Anche nell’Oetaeus lo strumento di morte diventa mezzo di esaltazione al cielo e di vittoria. Il protagonista, dopo la sua morte, si trasfigura e ascende al cielo. In una parola, Ercole, il nuovo eroe, presentato a immagine di Gesù, è il benefattore dell’umanità, il salvatore perfino nel mondo dei morti così che il coro conclusivo della Tragedia lo identifica e lo acclama come Dio.
Che cosa dire? Lamento che l’autore della Tragedia, sia Seneca sia un altro storico della sua scuola, certamente conosceva i Vangeli e ne ricalca il racconto e lo adatta al personaggio di Ercole. A leggerlo con attenzione si può affermare che l’autore ha letto non solo il Vangelo di Marco, ma anche di Giovanni, ma questo non deve essere detto secondo certi autori di oggi per i quali il Vangelo di Giovanni non può essere stato scritto prima del 100 d.C. Ora è accertato che il Vangelo di Giovanni è stato scritto prima dell’anno 70, così che Seneca o lo Pseudo-Seneca poteva averlo letto (cf. A. T. Robinson, The Priority of John, SMC Press, Londra 1985).
Ma questo, secondo i novatori, non va detto e se il fatto disturba le loro teorie, peggio per il fatto, che dunque va ignorato e non considerato. Da parte sua, il pensiero cristiano fece sua questa idea di Ercole come prefigurazione di Gesù: lo dicono i primi Autori cristiani ed è raffigurato nelle catacombe. Ed è così evidente che chi assisteva alla rappresentazione dell’Hercules senechiano, o anche solo lo leggeva, quasi d’istinto era portato a pensare a Gesù il Maestro crocifisso e risorto, la cui conoscenza aveva invaso Roma sempre di più dal 35 d.C., anno del “Senato consulto” provocato da Tiberio, che di Gesù era stato informato in modo così impressionante da Pilato, da volerlo proclamare Dio.

“Il Pesce” bollito

Più giovane di Seneca è lo Scrittore satirico Giovenale (55-127 circa d.C.), ragazzino al tempo di Nerone, ma giovane adulto al tempo dell’Imperatore Domiziano (81-96 d.C.) altrettanto persecutore dei Cristiani. In una sua Satira, evoca con orrore la carneficina dei Cristiani fatta da Nerone nel 64, dove tanti innocenti furono crocifissi o arsi vivi come torce nei giardini imperiali (Satira I, 155-157).
Nella Satira IV, Giovenale racconta il martirio dell’Apostolo ed Evangelista Giovanni, a Roma, sotto l’Imperatore Domiziano. Secondo un’antica tradizione fondatissima, Giovanni il prediletto di Gesù venne a Roma, predicò il Vangelo, ma fu catturato e immerso in una giara colma di olio bollente, in cui avrebbe dovuto morire interamente cotto, ma invece ne uscì fresco e vegeto più di prima.
Questo martirio inflitto ma mancato dell’Apostolo Giovanni, era ricordato nel calendario liturgico vigente prima della riforma liturgica del 1969 al 6 maggio, e nel secondo Notturno del Mattutino se ne leggeva il racconto scritto da san Girolamo, nel libro Adversus Jovinianum: «Tramanda Tertulliano che Giovanni, infilato a forza in una giara di olio bollente, ne uscì più vivo di quanto era entrato» («Missus in ferventis olei dolium, purior et vegetior exivit quam intravit»).
Ora di questa singolare avventura non ne parlano solo Tertulliano e Girolamo ma lo stesso Giovenale, Autore pagano, che poté anche aver assistito allo spettacolo tremendo di “san Giovanni Bollito”. Scrive pertanto Giovenale nella Satira IV: «La vittima da arrostire è un grosso “pesce”» (spatium admirabile rhombi), ma i Cristiani, già ai tempi di Giovenale, si chiamavano “pesci”, perché la parola in greco che indica il pesce è IXTYS, che sono le iniziali della Professione di Fede cristiana “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”.
Giovenale scrive che la vittima è una bestia straniera che viene da lontano via mare [peregrina est belua]. È stata catturata a causa di spie e da Ancona portata a Roma dove viene convocato il senato e decisa la sua sorte. La “bollitura” del grosso pesce – l’illustre cristiano – avverrà a Porta Latina, ma si dovette costruire una “padella” che lo contenesse. Ilaria Ramelli, da vera “signora” della storia cristiana, nel suo libro I cristiani e l’impero romano (Marietti 1820, Genova 2011, pp. 80-85), dà tutte le ragioni dell’identificazione del “pesce” con l’Apostolo san Giovanni nella Satira IV di Giovenale, il quale, pur con il suo stile beffardo, si scaglia contro Domiziano, chiamato il “calvo Nerone” che con la sua prepotenza si è arrogato il potere degli dèi, ciò che non è lecito a un uomo, anche sul Trono imperiale.
Prossimamente racconteremo altre cose che affermano la presenza di Gesù nella cultura pagana del I-II secolo, ma quanto abbiamo raccontato e documentato fin qui basta a confondere coloro che dicono come la cultura ufficiale di Roma ignorò Gesù e la nascita della Chiesa. Non è vero, anche se qualcuno che lo afferma pretende di avere molti studi. Gesù, appena arrivato sulla terra, ha cominciato a disturbare, Erode il grande, i farisei e i sadducei, gli intellettuali, poi Erode il piccolo, Caifa e il sinedrio, Pilato e il pretorio, su su fino a Roma e oltre. Disturba anche adesso.
Insomma ha cominciato subito ad affascinare e a conquistare una moltitudine di anime o a essere odiato, ma ignorato mai. Lui è il Presente, il Vincitore che dilaga. Nessuno lo farà mai tacere. Non toccate il Cristo. Non provate a scoronarlo né a detronizzarlo. Ché la prima e l’ultima parola è la Sua, anzi è Lui stesso: Gesù Cristo! Lui solo!

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