FEDE E CULTURA
Celebrare il “suicidio dell’Europa”? Un monito a 100 anni dalla Prima Guerra Mondiale
dal Numero 30 del 27 luglio 2014
di Guido Vignelli

Siamo giunti ormai al centenario della Prima Guerra Mondiale. Cosa celebrare di una guerra che si rivelò un vero e proprio fallimento non solo per gli italiani, ma per tutta l’Europa, non raggiungendo peraltro nemmeno i discutibili scopi di chi l’aveva voluta e promossa?

In questi giorni si commemora il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale. Per questa occasione, perfino alcuni pacifisti “senza se e senza ma” hanno ripetuto, sia pure con scarsa enfasi e convinzione, alcune vecchie frasi retoriche sulla “sacra vittoria” che avrebbe cementato l’unità d’Italia in seno al nuovo assetto europeo. Mi permetto però di obiettare che questa commemorazione dimentica significato, cause e conseguenze subìte della Grande Guerra, la quale fu rovinosa sia per l’Europa che per l’Italia, come è stato ormai confermato da studi recenti pubblicati da storici seri, da Dawson a Fejtö, da Nolte a Emilio Gentile.
Perché gli europei, che dal 1970 si cullavano nelle delizie della Belle Epoque, nel 1914 si lasciarono trascinare nel vortice e nell’inferno di una guerra mondiale e totale? Questa fu voluta non dai popoli ma dalla Massoneria, che sfruttò abilmente una convergenza d’intenti tra fazioni apparentemente opposte: liberali e socialisti, nazionalisti e internazionalisti, guerrafondai e pacifisti. La Massoneria voleva creare le condizioni per far compiere un salto di qualità al processo rivoluzionario anticristiano, passando dalla Europa degli Stati-nazione di stampo borghese alla “repubblica universale” – oggi si direbbe al “nuovo ordine mondiale” – di stampo solidarista e sinarchico, implicitamente totalitario, progettata da quegl’intellettuali e politici liberali o radicali o socialisti (come Léon Bourgeois) che stavano per fondare la Società delle Nazioni e che poi progetteranno l’ONU.
Come poté imporsi questo progetto settario? Esso presupponeva che i popoli europei venissero completamente “liberati” dalla residua tutela del Trono e dell’Altare, sottraendo la politica internazionale alle ultime grandi famiglie aristocratiche o tradizionali e distruggendo i resti dei vecchi imperi che conservavano una radice cristiana: innanzitutto quello cattolico degli Asburgo, ma anche quello protestante dei Kaiser tedeschi e quello “ortodosso” degli Zar russi. Eppure quei popoli erano rimasti attaccati alle loro tradizioni religiose e alle loro dinastie regnanti, resistendo all’emancipazione avviata dalla Rivoluzione del 1789 e alla secolarizzazione imposta dai successivi regimi liberali. Pertanto la Massoneria volle sottoporre quei popoli a una sanguinosa espiazione di massa, a un cruento “rito d’iniziazione” collettivo, per farli passare “dalla età infantile a quella adulta”, ossia “dal Medioevo alla modernità”, trasformandoli in una nuova umanità emancipata.
Questi slogan, che oggi ci sembrano ridicoli e assurdi, furono propagandati dai predicatori guerrafondai all’inizio del XX secolo, nella pretesa che la loro guerra sarebbe stata l’ultima della storia, quella che avrebbe realizzato il “passaggio dal regno della necessità a quello della libertà”, come annunciavano famosi letterati quali Victor Hugo ed Emile Zola. Purtroppo perfino alcuni sovrani caddero nella trappola tesa dalla Massoneria; in particolare, lo Zar Nicola II si schierò con la coalizione laicista e anti-imperiale, pagando poi caro l’errore con la perdita del trono e della vita.
In conseguenza della Grande Guerra, i popoli europei subirono una militarizzazione, urbanizzazione, massificazione e livellamento sociale tali, da favorire la secolarizzazione politica, la rovina delle strutture sociali organiche, il degrado morale e la crisi delle tradizioni religiose. Il “reduce” dalle trincee costituì la tipica figura dello sradicato, ormai privo d’identità ma talmente pregno di risentimento e di rivalsa, da poter essere facilmente manipolato dai nuovi agitatori professionali delle masse anonime e disorientate. Se la rovina non fu totale, lo dobbiamo soprattutto alla residua influenza della Chiesa Cattolica, per merito della lenta rinascita ecclesiale del XIX secolo e dell’impegno profuso dagli ultimi Pontificati, specie quello di san Pio X. Oggi bisogna dunque ringraziare quelle poche personalità, ostacolate e calunniate dalla propaganda guerrafondaia, che cercarono vanamente di operare per la pace scongiurando la “inutile strage”: particolarmente il papa Benedetto XV e il beato imperatore Carlo d’Asburgo.
Ma perché l’Italia venne coinvolta in una cruenta politica di potenza che non la riguardava e dalla quale sarebbe stata comunque strumentalizzata e travolta, peraltro conquistando il germanico Sudtirolo ma rinunciando alla italiana Dalmazia? Il fatto è che, sotto la retorica nazionalistica della “quarta guerra d’indipendenza”, erano ben altre le vere intenzioni dei guerrafondai nostrani. Intellettuali e politici progressisti avevano sempre rimproverato al popolo italiano di non aver mai accettato davvero la Rivoluzione liberale del 1789 e quella risorgimentale del 1870, di essere rimasto attaccato alla “superstizione” e alla “tirannia”, ossia al Cattolicesimo e ai legittimi sovrani preunitari; anch’esso dunque doveva espiare un tale “peccato storico”, finendo coinvolto in quel cruento “rito d’iniziazione” che si preparava per i popoli retrogradi.
Per giunta, la “riforma intellettuale e morale” dell’Italia, tentata dallo Stato risorgimentale dietro indicazione dei vari santoni nazionalisti (Mazzini, Cattaneo, De Sanctis, Ferrari, Spaventa...) si era impantanata nel lassismo e nella corruzione della Belle Epoque nostrana. Per giunta, sotto Leone XIII e san Pio X, le associazioni cattoliche si erano riorganizzate e coordinate ed erano tornate a incidere sulla vita non solo sociale ma anche politica, contendendo ai socialisti l’adesione delle classi meno abbienti.
Insomma, se l’élite risorgimentale aveva “fatto l’Italia”, bisognava ancora “fare gl’Italiani”, i quali erano rimasti «i più pericolosi avversari dell’Italia», come lamentava Massimo d’Azeglio; bisognava che quel popolo rinunciasse alla Religione cristiana e trascendente per sostituirla con quella laicista e immanente della “libertà”. Pertanto i guerrafondai dell’epoca – non solo liberali come Orano, Omodeo e Gentile, ma anche socialisti come Bissolati, Salvemini e Gramsci – vollero coinvolgere l’Italia in una “catastrofe creatrice” capace di forgiare la neonata e precaria unità nazionale, in una “guerra civile” (sia nazionale che continentale) che facesse vincere le forze progressiste su quelle ancora retrive, in una sanguinosa tragedia che mobilitasse non solo pochi volenterosi “patrioti” ma anche tutti i cittadini italiani obbligati alla leva militare di massa, dunque alla “socializzazione della vita privata”. A nulla servirono le resistenze di politici e intellettuali liberali più equilibrati, come Giolitti e Croce: il popolo venne immolato all’idolo nazionalista.
Il risultato fu opposto a quello sperato, a livello sia nazionale che internazionale. Quella Grande Guerra, che avrebbe dovuto forgiare le nuove Nazioni, avviò invece la crisi degli Stati nazionali e delle stesse identità nazionali, travolte dalla nascente globalizzazione e dall’internazionalismo sia radicale che comunista. La guerra non solo non cementò l’unità italiana in seno a quella europea, ma moltiplicò le divisioni italiane in seno ai nuovi conflitti europei, che difatti esplosero solo vent’anni dopo nella Seconda Guerra Mondiale. Il 1914 segnò la fine di quella effimera “epoca della sicurezza” promossa dalla borghesia liberale e positivistica durante la Belle Epoque.
All’Europa andò anche peggio: perdendo i propri residui primati, da centro del mondo essa diventò una “terra di mezzo” schiacciata e colonizzata dal condominio russo-americano. Militarizzazione, massificazione, burocratizzazione e propaganda professionale favorirono l’avvento dei nuovi regimi totalitari di massa, che difatti sorsero proprio in conseguenza della guerra e della successiva crisi economica: ossia comunismo, fascismo e nazismo, ma anche, più tardi, il New Deal rooseveltiano-kennediano e i nazionalismi etnici o religiosi come quelli balcanici e islamici. Insomma, quella del 1914-1918 fu una “guerra civile europea” che avviò il suicidio dell’Europa.
Le autorità politiche europee di allora, avrebbero forse suscitato la Grande Guerra, se avessero previsto queste disastrose conseguenze? Certamente no. Eppure i loro eredi, anche quelli poi diventati pacifisti, hanno continuato a celebrarla conformisticamente, come se la storia non ne avesse dimostrato il fallimento. Eppure perfino oggi, in questa nuova e ancor più illusoria Belle Epoque, alcuni loro eredi tornano a sognare una “guerra civile mondiale”, nella pretesa che la società odierna, per liberarsi dalla confusa e convulsa palude nella quale si è impantanata, abbia bisogno di subire una nuova “catastrofe creatrice” che permetta alla Rivoluzione anticristiana di compiere un nuovo “salto di qualità”, in modo da suscitare “un altro mondo possibile”, come dicono i no (o new) global. Le nuove forme di “guerra diffusa e asimmetrica”, come il terrorismo cieco e casuale, sembrano essere le modalità di questa conflittualità permanente che vorrebbe promuovere una rivoluzione permanente sulla pelle dei popoli e sulle rovine non solo della loro economia ma anche della loro civiltà.
Stiamo dunque bene attenti a certe istanze e proposte che si ammantano di un fasullo “ascetismo profetico”, magari esigendo rinunce, penitenze e sacrifici (umani). A questa nuova pericolosa illusione obiettiamo, come ammoniva nel 1946 il guerrafondaio pentito Giovanni Papini, che «la storia ci dimostra il fallimento finale di tutte le rivoluzioni. Non c’è che una sola via per farsi liberi: diventare cristiani». Il che vale non solo per gl’individui ma anche per i popoli.

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