FEDE E CULTURA
Scanderbeg, difensore dell’Europa cristiana
dal Numero 3 del 21 gennaio 2018
di Giuseppe Butrimo

Il 17 gennaio dell’anno 1458 moriva ad Alessio (nel nord-ovest dell’Albania) il capo ed eroe nazionale albanese, l’intrepido difensore della patria e della Fede, Giorgio Castriota, detto Scanderbeg. A 550 anni dalla sua scomparsa, ricordiamo la figura di uno dei più grandi condottieri cristiani della storia, insignito dalla Santa Sede del titolo di “Athleta Christi”.

L’epoca tormentata

La prima metà del Quattrocento fu un periodo molto travagliato per l’Europa cristiana. Appena la Christianitas si era ripresa dalla terribile lacerazione dello scisma occidentale subito dovette combattere la ripugnante eresia hussita. L’inizio del Rinascimento portò con sé anche una nuova ondata di corruzione dei costumi che non risparmiò nemmeno gli ambienti ecclesiastici. E, come se non bastasse, oltre a queste profonde ferite all’interno della civiltà cristiana (sostanzialmente ancora unita), il terribile nemico esterno cresceva sempre più in forza e in audacia.
Già da tempo i turchi penetravano in Europa, verso i Balcani e l’Ungheria. Nel 1444 falliva il progetto di una grande crociata, guidata dal Re della Polonia e dell’Ungheria, Ladislao, che morì nella terribile battaglia della Varna. A stento il grande condottiero ungherese, Giovanni Hunyadi, “il cavaliere bianco”, riuscì a salvare una parte dell’esercito. Nel maggio del 1453, malgrado l’eroismo dei difensori (e in particolare del crociato genovese Giovanni Giustiniani), cadeva la fortezza fino a quel momento ritenuta inespugnabile: Costantinopoli. Cadeva così l’Impero orientale. Il sultano Maometto II (d’ora in poi detto “il Conquistatore”) a soli 21 anni entrava trionfalmente nella capitale della cristianità a capo dell’enorme esercito di 160.000 soldati. Costantinopoli divenne Istanbul e, sotto il nuovo nome, la capitale dell’Impero ottomano. Tre anni dopo, la grande conquista sarà fermata dal “cavaliere bianco”, Hunyadi, e più ancora dall’intrepido e infaticabile predicatore francescano, san Giovanni da Capestrano, nella battaglia di Belgrado. Questa sconfitta, inflitta da un frate disarmato a capo di contadini, portò il sultano quasi al suicidio. Tuttavia si riebbe ben presto e ancora per i successivi 25 anni non avrebbe avuto pace, organizzando sempre nuove invasioni contro i cristiani. Una delle ultime finirà con la terribile ed assieme gloriosa (da parte degli ottocento martiri) strage di Otranto.

Alla corte del sultano

Giorgio Castriota nacque, nel 1405, all’inizio di questo secolo travagliato e proprio nella parte del mondo che doveva esser la più travagliata. Suo padre, Giovanni Castriota, fu principe di Kruja. Una città che probabilmente non sarebbe divenuta famosa se non proprio grazie al nostro protagonista. Con Scanderbeg Kruja «sfidò, attese intrepida lo sforzo dei più potenti tra i sultani, vide frangersi a’ suoi piedi l’orgoglio della mezzaluna, disperse e dissipò gli eserciti» (Zoncada1). Ma non anticipiamo il corso della storia. Nella giovinezza di Giorgio, infatti, le cose andavano ben diversamente. Talmente diversamente che il principe di Kruja, sconfitto dai turchi, dovette dare il suo giovane figlio come ostaggio alla corte del sultano. Peggio ancora: Giorgio apostatò, facendosi musulmano e intraprendendo la carriera militare nell’esercito ottomano.
Le imprese militari che il giovane albanese portava avanti nel servizio del sultano indicavano che stava nascendo un grande condottiero. Fu allora che venne chiamato Iskander Beg. “Beg”, oppure “Bey”, è un titolo che indica un condottiero, un capo di tribù o un governatore. “Iskander” è la versione turca di Alessandro, col riferimento, niente di meno, allo stesso Alessandro Magno. Non sappiamo precisamente chi per primo ebbe l’intuizione di paragonare il giovane stratega al grande macedone: il percorso della carriera militare del nostro protagonista avrebbe, però, dato ragione di un tale paragone.
Le prospettive brillanti che si aprivano per il giovane ufficiale, il lusso della corte del sultano e più ancora il sistema religioso e sociale dell’islam, completamente indirizzato a soddisfare i desideri degli uomini ricchi ed importanti, non potevano, però, soffocare in Giorgio quel che la grazia operò in lui nel Battesimo. C’è chi dice che la sua successiva riconversione al Cristianesimo fu solo e semplicemente frutto di un desiderio di vendetta per l’umiliazione che portò alla tomba suo padre. Le cose possono del resto andare anche insieme: ben si sa che la grazia si serve talvolta anche di istinti naturali, i quali benché non santi non sono nemmeno peccaminosi. Lasciamo alla coscienza del nostro eroe i motivi più diretti che lo mossero nuovamente verso la vera Fede. Basti dire, per adesso, che all’inizio degli anni quaranta egli prese i primi contatti con il grande “cavaliere bianco”, Giovanni Hunyadi, il quale affrontava instancabilmente i turchi che invadevano i Balcani e l’Ungheria. Vi fu anche un’ambasciata segreta da parte degli albanesi oppressi dal regime ottomano che si appellavano alle origini dell’Iskander Bey, sperando che egli volgesse il suo genio a favore della loro causa.

La vera Fede

La svolta venne nell’anno 1443, cioè un anno prima della sfortunata crociata della Varna. Il cavaliere bianco, Hunyadi, aveva liberato dall’occupazione turca una parte dei Balcani. Ora il sultano voleva riprendersi le terre perdute. Con le truppe mandate ad affrontare il condottiero ungherese vi fu anche Iskander. La notte prima della battaglia, però, con un gruppo di altri albanesi, passò all’accampamento ungherese. Hunyadi vinse la battaglia e Iskander con i suoi albanesi andò a riconquistare il castello paterno di Kruja. L’arrivo del valido condottiero svegliò le speranze del suo popolo; ma Giorgio Castriota disse: «Non sono io a portarvi la libertà; sono io a trovarla in mezzo a voi». Era, infatti, anch’egli in fondo un ostaggio fuggito dalla schiavitù. Ora dichiarava apertamente, scrivendo allo stesso sultano, di «abbandonare la falsa fede di Maometto per ritornare alla vera fede di Cristo»: e questa fu la sua più importante liberazione. Segno di questa liberazione fu anche il cambiamento del nome: il turco “Iskander Beg” venne dagli albanesi sostituito con “Scanderbeg”: nome, questo, sotto il quale egli sarebbe divenuto l’eroe conosciuto in tutto mondo.
Ovviamente, la diserzione di Iskander fece infuriare il sultano. D’ora in avanti per 25 anni gli ottomani cercheranno invano di sottomettere l’Albania. Lo stesso castello di Kruja diverrà un vero e proprio baluardo a difesa di tutta l’Europa cristiana.
Agli inizi del 1444 Scanderbeg fece sorgere la nazione albanese: con la maggior parte dei principi albanesi firmò l’alleanza detta Lega di Alessio o Lega Albanese. Il momento era propizio, in quanto il sultano aveva mandato a riprendere le terre albanesi un esercito di più di 100.000 uomini. Ma gran parte di quell’esercito poderoso venne sconfitta da Scanderbeg nella battaglia di Torvioll, nel giorno dei santi apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno dell’anno 1444. Sembra che durante tutta la sua lunga crociata il Castriota non abbia mai avuto a disposizione un esercito superiore ai 20.000 uomini. I turchi invadevano l’Albania sempre con eserciti numericamente di molto superiori (ed almeno due volte superiori ai 100.000 uomini), ma non prevalsero mai finché Scanderbeg fu in vita.

“Athleta Christi”

Il successo di Torvioll fu eclatante. Lo stesso Sommo Pontefice iniziò a ideare una nuova crociata, guidata dal grande Stratega albanese. Ma, nel frattempo, accadde la disfatta della Varna e le nuove avanzate dei turchi ritardarono il progetto di qualche anno, per circostanze molto più tristi: quelle della caduta di Costantinopoli.
Il secondo invasore ottomano in Albania, di cognome Firuz, fu sconfitto nella battaglia di Prizren, nell’ottobre del 1445. Un anno dopo, una simile fine la fece Mustafa Pascià che, pur salvandosi egli personalmente, perse la maggior parte dei suoi 25.000 soldati.
Dalla Sede Apostolica giunse al nostro protagonista il ringraziamento papale e la consegna del titolo Athleta Christi. Infatti, in questi anni tormentosi delle continue invasioni della cosiddetta “religione della pace”, alcuni condottieri cristiani tra i più valenti vennero ringraziati per le loro gesta con questo titolo. Tra questi: Giovanni Hunyadi e Scanderbeg, e qualche tempo dopo anche Stefano il Grande di Moldavia, vincitore anch’egli di trenta battaglie contro i turchi.
Nell’anno 1450 lo stesso sultano Murad si mosse verso l’Albania, guidando 150.000 soldati e strinse d’assedio Kruja: invano e con le solite enormi perdite. Così pure due anni dopo i due eserciti mandati da Maometto II furono annientati dagli albanesi. Uno dei generali turchi fu catturato, l’altro perì in battaglia. Fu sicuramente benedetto dall’alto dei cieli il condottiero albanese, come stava scritto sul suo famoso elmo: IN-PE-RA-TO-RE-BT. Le prime e ultime lettere significherebbero Iesus Nazarenus benedicat tibi, mentre le altre indicherebbero i titoli di Scanderbeg (“TO” sarebbe forse il più caro al nostro protagonista, significando Terror Ottomanorum). Secondo un’altra ipotesi, più bella ancora, tutti i titoli – Rex Albaniae incluso – si riferirebbero a Cristo stesso, mentre lo Scanderbeg non volle mai accettare il titolo regale, ritenendosi solo servitore di Gesù.
E la benedizione toccava non solo le sue abilità strategiche. Scanderbeg fu terribile anche nello scontro diretto in battaglia. Si narra di lui che durante uno degli ultimi assedi di Kruja, abbia ucciso di sua mano 2.000 turchi. Durante una breve tregua, in mezzo alle trattative per l’armistizio, il sultano aveva chiesto una volta di poter vedere la famosa spada di Scanderbeg. E il capo albanese acconsentì, mandando l’arma leggendaria al suo nemico. Ma, forse per il peso della scimitarra, il sovrano ottomano disse che non era possibile compiere con questa spada le gesta attribuite al Castriota. La risposta di quest’ultimo, portata da un ambasciatore, fu breve: il sultano ha visto la spada, ma non il braccio. Questa frase, non a caso, viene talvolta citata dagli autori spirituali. La regola, infatti, vale per ciascuno di noi e per ogni strumento che si possiede, a cominciare dall’intelligenza: non basta averlo, occorre saperlo usare bene.

Sangue per sangue

Nelle sue memorie, il grande confessore della Fede del secolo XX, il primate ungherese card. Mindszenty fa notare un dettaglio storico: nel Medioevo la popolazione dell’Ungheria uguagliava numericamente quella di Francia o Inghilterra. Come mai cinque secoli più tardi gli inglesi o i francesi sono cinque volte più numerosi? Perché, risponde il Cardinale, mentre i Paesi occidentali potevano svilupparsi in pace, l’Ungheria si dissanguava difendendo l’intera Christianitas dalle invasioni turche e cadendo, infine, sotto il giogo ottomano. Similmente avvenne anche in Albania. Sconfiggere più volte gli enormi eserciti della cosiddetta “religione della pace” (come spesso chiamano l’islam coloro che non vogliono saper niente della sua storia) esigeva un vero genio militare, ma pur con uno dei migliori comandanti della storia a capo, una simile guerra non poteva non comportare gravissime perdite anche per gli albanesi. E, come è evidente, mentre i turchi potevano sempre attingere dalle risorse umane del vastissimo impero e degli innumerevoli schiavi, non così la piccola Albania.
Scanderbeg aveva bisogno di aiuto. L’apprezzamento da parte della corte papale non bastava. I rapporti con la Serenissima variavano: di solito i veneziani erano contenti d’aver tra loro e i turchi un baluardo inespugnabile, ma talvolta i successi del Condottiero albanese preoccupavano il doge come se non si trattasse di un baluardo cristiano. Il Castriota trovò un protettore nella persona del Re di Aragona, Alfonso, e di suo figlio, il re di Napoli, Ferrante. Per qualche tempo venne anche in Italia proprio per questa ragione, aiutando Ferrante a mantenere il suo vacillante trono. Come ringraziamento il Re di Napoli regalò al grande Condottiero i feudi contenenti il santuario del Celeste Condottiero: Monte Sant’Angelo (e con esso anche San Giovanni Rotondo, dove esattamente 500 anni dopo la morte di Scanderbeg sarebbe morto San Pio da Pietrelcina).
Mettendo da parte la breve parentesi italiana, la guerra continuò sempre in Albania e Scanderbeg continuò immancabilmente a sconfiggere gli eserciti della Mezzaluna. Maometto II nel maggio del 1453 entrava trionfalmente a Costantinopoli ma, un mese prima, un altro suo esercito era stato sconfitto da Scanderbeg nella battaglia di Skopje. Ormai, però, caduta Costantinopoli, la valanga turca poteva inondare senza ostacoli l’Europa. Nel 1456 san Giovanni da Capestrano e Giovanni Hunyadi salvavano dall’assedio ottomano la città di Belgrado. Ma ambedue gli eroi di questa battaglia morirono nello stesso anno. Più a nord il terribile Vlad Tepes, detto l’impalatore, resisteva con efficacia contro i turchi in Transilvania; in Moldava faceva lo stesso Stefano il Grande. Il sud spettava a Scanderbeg.

Il sogno del sultano

Maometto II, ripresosi dopo l’umiliante sconfitta di Belgrado, riprese pure il suo progetto di metter la mezzaluna sulla Basilica petrina a Roma. Aveva appena 25 anni. Conquistò “la seconda Roma”. Poteva gettare sul campo eserciti numericamente molto superiori rispetto a quelli che avevano a loro disposizione i cristiani e non solo: nell’assedio di Costantinopoli i turchi ebbero anche uno schiacciante vantaggio tecnologico, usando i famosi cannoni “mostri”, capaci di colpire le mura teodosiane con palle dal peso di una tonnellata ciascuna. Giovane, coraggioso, incontenibile: Maometto era determinato a realizzare il suo sogno e portare alle estreme conseguenze la sua fama di “Conquistatore”. Ma, per arrivare a Roma, bisognava finire con Scanderbeg. Sia perché la strada più breve era proprio quella attraverso le terre del Castriota, sia perché se si fosse voluta aggirare l’Albania, dirigendosi verso occidente con un percorso diverso, allora ci si sarebbe dovuti lasciare dietro le spalle un nemico implacabile e capace di tutto: un rischio troppo grande.
Mettere il piede nell’Albania di Scanderbeg significava, però, per i turchi un rischio ancora maggiore. Le successive invasioni finivano sempre allo stesso modo. Nel 1462 nella seconda battaglia di Skopje il risultato fu lo stesso che nella prima. Papa Pio II progettò allora una nuova crociata e volle perfino venire di persona in Albania per nominare Scanderbeg capo della crociata, benedirlo e dargli ogni possibile aiuto. Ma, purtroppo, l’impresa fallì, poiché il Pontefice fu colto dalla morte in viaggio verso l’Albania (doveva imbarcarsi ad Ancona e ivi morì nell’agosto del 1464), «proprio il dì medesimo che Scanderbeg riportava sui turchi una delle sue più strepitose vittorie» (Zoncada), distruggendo l’esercito di Sceremet Bey.
La morte di Pio II fu il primo dei segni che indicavano un futuro cupo. Scanderbeg doveva combattere da solo e il potentissimo sultano Maometto II era determinato. Nel 1465 mandò in Albania il suo comandante migliore, l’audace Ballaban Pascià. Albanese di origine anch’esso, cresciuto nella schiavitù ottomana e nella fede musulmana, la sua fama era dovuta al fatto che fu il primo ad entrare a Costantinopoli, divenendo così una sorta di equivalente islamico di Goffredo di Buglione. Ballaban, infatti, riuscì ad affrontare Scanderbeg e in una battaglia di minor importanza perfino a sconfiggerlo: questo insuccesso transitorio si può considerare come un altro segno. Il Castriota si vendicò nel giro di pochi giorni in due altre battaglie e l’anno dopo Ballaban morì, sempre durante una battaglia. Ma intanto lo stesso Maometto II, questa volta di persona, guidò – nel 1466 – il più grande esercito fino ad allora inviato in terra albanese (forse perfino 200.000 soldati) assediando di nuovo Kruja. Fu proprio riguardo a questa occasione che si narra di duemila turchi uccisi personalmente da Scanderbeg. I turchi di nuovo dovettero ritirarsi, ma solo per pochi mesi. L’anno 1467 portò un nuovo assedio di Kruja, di nuovo respinto. Passiamo la parola all’abile narratore Zoncada: «Per forse un quarto di secolo la Cristianità d’Occidente non ebbe altro argine più saldo contro il traboccar della barbarie mussulmana. Nessuna città resse per avventura a tante e sì tremende prove in più breve spazio di tempo; quattro volte stretta dai turchi con immenso sforzo, con favolosi apparati, quattro volte li ributtò, e li ridusse a levare il campo sgominati e avviliti seminando di cadaveri il suolo albanese».
I sogni di Maometto II di arrivare a Roma svanirono sotto un castello albanese.
Ma chi aveva rovinato i sogni del “Conquistatore” non poté però realizzare nemmeno il proprio sogno di un’Albania libera, cristiana e sicura. Nel gennaio del 1468, ad Alessio, Scanderbeg inaspettatamente morì di malaria (conformandosi anche in questo ad Alessandro Magno), non riuscendo più a stringere l’alleanza con i veneziani per organizzare la comune difesa dagli invasori.

Da Scutari a Genazzano

Nove mesi prima della morte di Scanderbeg, nella primavera dell’anno 1467, uno spettacolo insolito apparve davanti agli occhi degli stupiti abitanti del paese di Genazzano, in Italia. Accanto alla chiesa si pose un’immagine della Madonna, volata miracolosamente insieme a un pezzo di muro. Figurarsi lo stupore dei religiosi e degli abitanti nell’assistere a un miracolo così evidente, e la loro commozione al vedere il volto soave della Madonna su un bellissimo dipinto di stile bizantino!
Qualche tempo dopo a Genazzano vennero anche due pellegrini albanesi. Cercavano la loro Madonna. Infatti quella era l’immagine della Beata Vergine di Scutari che, dando un segno terrificante ai suoi devoti, abbandonò il Paese volando verso l’Adriatico ed oltre. Come la Santa Casa della Madonna arrivò, portata dagli angeli, a Loreto per non cadere nelle mani dei musulmani, così anche l’immagine di Scutari trovò un luogo sicuro e devoto, mentre l’Albania stava per cadere nelle mani del nemico crudele. Fu questo il segno celeste che profetizzava le sciagure ormai vicine e allo stesso tempo, possiamo dirlo, a indicare ai fedeli albanesi dove poter trovare anch’essi un riparo tranquillo, dove poter pacificamente professare la Fede cristiana.
L’immagine di cui parliamo è tuttora venerata nel santuario della Madre del Buon Consiglio a Genazzano. Accanto all’icona si possono scorgere le bandiere albanesi che fanno guardia d’onore alla loro Patrona.
Il buon consiglio di Scanderbeg, invece, purtroppo non fu accolto dai suoi compagni. Il Condottiero moribondo volle, infatti, insegnare ai comandanti albanesi il valore dell’unica arma che essi avevano nella guerra contro il nemico potentissimo. Chiese a un fanciullo di raccogliere tanti bastoncini di legno e di legarli insieme, facendone un mazzo. Poi sfidò i suoi compagni, ordinando loro di spezzare quel mazzetto. Ovviamente, nessuno ci riuscì. Allora Scanderbeg disse al fanciullo di slegare i bastoncini e di spezzarli l’uno dopo l’altro. E ciò che non poterono fare quegli uomini forti, fu fatto senza fatica da un fanciullo. «Se restate tutti uniti – disse l’invincibile – nessuno potrà mai spezzarvi. Ma se sarete divisi, allora anche un solo bambino potrà sconfiggervi». Purtroppo, l’unità mancò. La lega d’Alessio – quel mazzetto di bastoncini, capace di resistere al potentissimo conquistatore di Costantinopoli – si disfece. E, come previde lo Scanderbeg e come indicò la Madonna, avvenne la catastrofe. Del resto, dopo un quarto di secolo di guerre continue contro un nemico molto più numeroso, venivano a mancare le braccia per combattere, veniva a mancare il sangue da versare ancora in difesa della Fede e della libertà.

Il senso della lotta

Scanderbeg sconfisse ancora una volta, pur da morto, i turchi: il solo grido del suo nome mise in fuga quegli invasori da lui trenta volte sconfitti (oppure, come vuole una leggenda, fu la vista della sua statura, avendone i suoi soldati legato al cavallo la salma). Ma la lotta non durò più tanto a lungo. Come scrisse Zoncada: «Scanderbeg muore e con lui muore la libertà albanese. Spirato l’Eroe, ecco l’Albania ricaduta in poco d’ora sotto la Mezzaluna, scomparire dalla luce del mondo, come più non fosse».
Ben otto volte si è intrapresa la causa di beatificazione dell’eroico crociato albanese. Finora, non è mai stata conclusa, sicuramente a causa della mancanza di mezzi economici. Manca forse anche la materia per poterlo proclamare santo? Non sappiamo, ma la sua storia qui riportata sembra attestare che Giorgio Castriota fu un vero Athleta Christi, non soltanto sui campi di battaglia, ma in tutta la vita, dal momento in cui “lasciò la falsa fede” per servire fedelmente quella vera. In ogni caso, crediamo che la resistenza ostinata del nostro protagonista contro l’oppressione turca non fu vana. Crediamo che il suo nome varrà ancora, accanto a quello di Madre Teresa di Calcutta, a risvegliare la fede cristiana dei loro compatrioti, in gran parte ridotti all’islam e all’ateismo dopo i secoli dell’occupazione turca e decenni di dittatura comunista. Ma crediamo anche nel senso e nel valore di questa resistenza dal punto di vista della Cristianità intera. Chissà che l’Occidente non si sia salvato proprio grazie a questa lotta terribile, lunga e sanguinosa degli albanesi. Chissà quanto anche noi dobbiamo a Giorgio Castriota e alla sua intrepida resistenza contro il nemico accanito della Fede cristiana! Potrebbe esser un buon tema di meditazione, soprattutto per questi tempi che sono molto più simili a quelli di Scanderbeg di quanto possa sembrare ad uno sguardo frettoloso.
Troveremo noi, un domani, veri Atleti di Cristo per difendere – o riconquistare – quel poco che ci è rimasto della Christianitas?  

NOTA

1) Antonio Zoncada, Scanderbeg. Storia albanese del XV secolo, Tipografia e libreria editrice Ditta Giacomo Agnelli, Milano 1874. Antonio Zoncada è l’autore di questo romanzo storico, da cui prendiamo alcune frasi di valore, prescindendo dal senso metaforico pro-risorgimentale dell’opera, pubblicata nel 1874.

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