APOLOGETICA
L’intelligenza è apertura alla realtà nella sua completezza
dal Numero 44 del 8 novembre 2015
di Corrado Gnerre

La filosofia naturale e cristiana pone lo sguardo al di sopra del pensiero. Lo sguardo inteso come percezione della realtà è “imprescindibile” all’intelligenza: l’intelligenza è infatti “leggere dentro la realtà” e “oltre”. Il ragionamento è importante, ma successivo alla osservazione e contemplazione della realtà.

Spesso si dice che chi crede in Dio, non ragioni. Peggio: è una persona che non usa bene la propria intelligenza. Addirittura c’è stato anche qualche pseudo scienziato e pseudo filosofo che ha osato affermare che i credenti sono un po’ “cretini”. E invece è proprio il contrario. Chi crede in Dio è colui che usa bene l’intelligenza, perché questa è apertura alla realtà nella sua completezza e quindi riconoscimento del fondamento che è Dio. D’altronde lo dice anche la Bibbia che è lo “stolto a dire in cuor suo: Dio non esiste”.
Gustavo Adolfo Bécquer (1836-1870) fu un poeta spagnolo, un poeta che ebbe peraltro una vita particolare e tormentata. Ci sono alcuni suoi versi che sono interessanti e bellissimi: «La tua pupilla è azzurra e se un’idea / come un punto di luce in fondo brilla, / mi sembra nel cielo della sera / una perduta stella!». Sono versi d’amore, ma che contengono un’evidenza particolare: l’ineluttabilità dello sguardo. Lo sguardo è imprescindibile. Lo sguardo vale più dell’idea. Lo sguardo vale più del pensiero: un’idea, paragonata ad una pupilla azzurra, non è che un nulla: è solo una perduta stella. In questi versi c’è tutta la naturalità del realismo filosofico. C’è tutto l’obbligo del riconoscere l’evidenza dell’essere.
L’intelligenza sta proprio qui: nell’osservare. Non si tratta di negare il ragionamento, questo occorre, eccome. Si tratta piuttosto di porre il ragionamento nella sua giusta collocazione. Esso viene dopo lo sguardo. Quando pretende di precederlo, fa catastrofi. Il famoso scienziato (premio Nobel nel 1912), Alexis Carrel (1873-1944), convertitosi a Lourdes, soleva affermare: «Molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore, molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità».
Dicevo, non si tratta di negare il valore del ragionamento. La filosofia naturale e cristiana è filosofia realista: la conoscenza è nell’adeguamento del soggetto all’oggetto, non viceversa. I filosofi cristiani (pensiamo a quelli del Medioevo) ragionavano eccome, ma il loro tratto distintivo stava nel fatto che il loro pensiero partiva dalla contemplazione. San Tommaso d’Aquino (1225-1274) soleva studiare e scrivere dinanzi al Tabernacolo e quando aveva bisogno di luce sollevava lo sguardo, contemplava e invocava. E i frutti erano quelli che conosciamo.
La filosofia naturale e cristiana è contemplazione della realtà. E poi, sulla realtà osservata e contemplata, si sviluppa il ragionamento. La filosofia moderna è invece solo pensiero autoreferenziale: si parte dal pensiero per arrivare al pensiero, bypassando volutamente (1) la realtà. È il razionalismo; che non ha nulla a che vedere con un’adeguata valorizzazione della ragione proprio perché questa è tale quando si accorda all’intelligenza che non può non essere attenta al dato del reale. 
La posizione dello sguardo, il privilegio dell’osservazione, il partire dal vedere e dal constatare è dunque non solo la posizione più ragionevole, ma anche quella più intelligente. La parola “intelligenza” viene dal latino intus-legit che significa “leggere dentro”. L’intelligenza, pertanto, implica non una conoscenza superficiale ma una conoscenza dentro la realtà. Appunto: la realtà; l’intelligenza ha bisogno della realtà, non ne può fare a meno. Se la realtà non esiste, non c’è modo di poter esercitare l’intelligenza, non c’è modo di essere intelligenti.
Attenzione però. Proprio perché l’intelligenza implica il “leggere dentro” la realtà, essa non è solo comprendere la realtà, ma anche aprirsi alla realtà nella sua completezza. Che vuol dire? Che l’intelligenza, per comprendere adeguatamente ciò che gli si pone dinanzi, deve anche considerare tale realtà non come un “atomo”, non come un semplice “settore”, ma come parte di un tutto, deve considerare la realtà nella sua integrità, nel suo intimo rapporto con il Tutto e con il Fondamento.
“Tutto” e “Fondamento” che possiamo correttamente scrivere con le iniziali maiuscole. L’intelligenza – se è veramente tale e non tradisce le sue intime caratteristiche – coglie infallibilmente che la realtà ha una sua ragione, che non può essere esito del caso, ma che consegue ad una causa razionale. Il celebre scrittore Leo Longanesi (1905-1957) affermò nel suo Parliamo dell’elefante che «non c’è obbligo di essere intelligenti». No, l’obbligo c’è eccome. Non c’è l’obbligo di essere intellettuali... anzi, in questo caso potremmo dire che meno lo si è e meglio è... ma intelligenti lo si deve essere, pena la perdita del proprio essere uomini.
Chrétien de Troyes (1160-1190), uno dei maggiori poeti del Medioevo, nel suo celebre Parsifal (poema che rimase incompleto per la prematura morte dell’Autore) ci offre un piccolo ma enorme particolare dell’animo di chi vuole essere un vero cavaliere. Tutti i cavalieri della Tavola Rotonda erano impegnati nella ricerca del Graal, solo Parsifal, per la purezza del suo cuore, sarebbe stato destinato a trovarlo. Ebbene, Chrétien de Troyes ci offre questi versi, poi vi dirò che senso ha citarli in merito a ciò che stiamo trattando: «Quel mattino c’era stata una grande nevicata [...]. Parsifal assai presto si era alzato [...]: desiderava cercare e incontrare avventure e imprese cortesi. Per caso giunse diritto sul prato gelato e coperto di neve, dov’era accampato l’esercito del re. Ma prima che giungesse alle tende, vide un volo di oche selvatiche abbagliate dalla bianca luce della neve. Si soffermò a osservarle e ne udì lo strepito mentre schiamazzando volavano via: erano state spaventate da un falco che s’era lanciato contro di loro impetuoso, e ne aveva colpito una, indifesa, rimasta fuori dallo stormo. [...] L’oca era stata ferita al collo e ne erano cadute tre gocce di sangue: s’erano allargate sopra il prato bianco sì che la neve pareva avere un colore rosato. [...] Quando Parsifal vide macchiata la neve su cui era caduto il sangue dell’oca si fermò, appoggiandosi alla lancia, per contemplare quella strana visione: il sangue mischiato alla neve gli sembrava simile al colorito fresco che aveva visto sul viso della sua amica. E in quell’immagine la sua mente si perse». Parsifal si era alzato per compiere grandi imprese. Sapeva che la giornata che allora iniziava sarebbe stata occupata da chissà quale avventura. Ma bastò un piccolissimo particolare: tre gocce di sangue cadute nella neve fresca per ricondurlo ad un’immagine che non riusciva a dimenticare. Osservando quelle misere tre gocce di sangue che spezzavano il bianco della neve, la sua mente si perse. Ecco la capacità dell’intelligenza! Saper “ri-mandare”, cioè osservare, capire e andare “oltre”. Non solamente andare “dentro” ma anche andare “oltre”. Come per Parsifal bastarono tre gocce di sangue d’oca per ricondurlo verso un’immagine che toccava il suo cuore, così ogni realtà che si pone dinanzi all’uomo ha un significato che va ben oltre. Risponde ad un senso. È pregna di un Significato che è più in là. Il poeta Clemente Rebora (1885-1957) dice in alcuni suoi versi: «Qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo!».
La filosofia moderna, privandosi dello sguardo, si è privata della vera ragione (pur cadendo nel razionalismo) e, privandosi della ragione, si è privata dell’intelligenza. Nel saggio La realtà e il bene, scritto nel 1935, il filosofo cattolico Josef Pieper pone con chiarezza la tesi centrale del realismo etico che è riassunta nell’affermazione che la realtà è il fondamento del dovere. Scrive Pieper: «Il bene è ciò che è conforme alla realtà. Chi vuole conoscere e fare il bene deve indirizzare lo sguardo all’essere del mondo che gli sta di fronte. Non alla sua “intenzione”, non alla “coscienza”, non ai “valori” [...]. Costui deve prescindere dal suo atto e guardare alla realtà».  

Nota

1) Volutamente, perché l’accettazione della realtà conduce inevitabilmente al riconoscimento della propria creaturalità e non autosufficienza.

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