APOLOGETICA
La “modernità” della torre di Babele
dal Numero 21 del 26 maggio 2013
di Corrado Gnerre

L’episodio della torre di Babele si ripresenta ai nostri giorni, è l’essenza della Modernità. È la realtà dell’uomo che vuole essere protagonista della vita, che vuole “toccare” il cielo per conquistare e dominare, per farsi creatore. È l’uomo che si inventa i suoi diritti al di là di ogni ordine anche naturale e logico.

Quando gli abitanti di Babilonia vollero costruire la famosa Torre, Dio intervenne, distrusse quell’opera e confuse le lingue di quegli uomini.
Ma cosa Dio non volle accettare di quell’opera?
Non certo il desiderio di costruire qualcosa d’importante. D’altronde, se l’uomo è intelligente, se l’uomo è capace di modificare la natura e di costruire, è perché Dio lo ha fatto intelligente e possessore di abilità che sono uniche. Fu altro ciò che Dio non accettò. La chiave per capire sta nel verbo “toccare”. Il racconto biblico non dice che quella torre doveva servire per “osservare” meglio il cielo, bensì per “toccare” il cielo. Osservare meglio il cielo è il desiderio di aumentare le proprie conoscenze, è il desiderio di poter scrutare un po’ oltre l’orizzonte. Tutte cose più che legittime, in quanto rispondenti alla costitutiva curiosità umana. La curiositas di Dante: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza. “Toccare” il cielo, invece, significa altro. Significa pretendere di eguagliare Dio. Significa modificare la propria condizione naturale: trasformarsi da “creatura” in “creatore”. “Toccare” il cielo vuol dire pretendere che la propria conoscenza possa essere illimitata. Possa esaurire tutto, dissolvendo completamente il mistero.
L’episodio della Torre di Babele può spiegare molte cose e può essere utilizzato come chiave di lettura per capire tanto. Soffermiamoci però su ciò a cui abbiamo fatto riferimento poco prima: “toccare” il cielo vuol dire pretendere che la propria conoscenza possa essere illimitata, esaurire tutto, dissolvere completamente il mistero.
Da questo punto di vista non è esagerato dire che l’episodio della Torre di Babele è l’essenza della categoria filosofica della modernità. Modernità che – come ho già avuto modo di dire più volte – non va confusa con il legittimo progresso scientifico-tecnologico, che con la categoria filosofica della modernità ha poco a che fare, essendo principalmente l’esito della cultura giudaico-cristiana. La Torre di Babele è l’essenza della categoria della modernità, perché tale categoria si fonda sulla pretesa di rendere l’uomo fondamento immanente di tutto, si fonda sull’antropocentrismo radicale.
Ho detto non semplicemente “antropocentrismo” ma “antropocentrismo radicale”. L’aggettivo “radicale” occorre. Di per sé potrebbe esserci anche un modo corretto di concepire l’antropocentrismo. Se infatti ci convinciamo che l’uomo è la creatura più nobile che esiste sulla faccia della terra, che è l’unica ad essere stata creata “ad immagine e somiglianza” di Dio, che per questo tutto è posto al suo servizio: «Che l’uomo domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo»... allora questo è un modo di concepire correttamente l’antropocentrismo. Ma se, invece, ci convinciamo che l’uomo possa essere completamente autosufficiente, che il suo pensiero possa divenire il criterio di giudizio della verità... allora siamo dinanzi ad un modo di concepire non correttamente l’antropocentrismo.
Soffermiamoci sulla questione del pensiero. Nel XVIII secolo, secolo che costituisce l’apice della modernità, avviene filosoficamente qualcosa di significativo. Chi mastica filosofia sa bene che in questo secolo convivono due correnti: il razionalismo e l’empirismo. Due correnti che di fatto si pongono su due prospettive diverse. Il razionalismo afferma l’innatismo, ovvero la ragione avrebbe dalla nascita le idee che rendono possibile la conoscenza. L’empirismo afferma una cosa totalmente diversa: la mente, prima dell’esperienza, è una tabula rasa, priva cioè di qualsiasi nozione. Dunque, due posizioni diverse, totalmente diverse... eppure non è così. Certo, le affermazioni sono distanti, ma esse sono gli effetti di un’unica causa. Un po’ come succede ai rami degli alberi. Questi prendono direzioni diverse – a destra, a sinistra – ma fuoriescono da un unico tronco, che a sua volta scaturisce dalle stesse radici. Razionalismo ed empirismo sono esito di questo antropocentrismo radicale che è l’essenza della categoria filosofica della modernità. Il razionalismo infatti dice: esiste solo quella realtà che può essere “pensata” dall’uomo. L’empirismo invece afferma: esiste solo quella realtà che può essere sperimentata dall’uomo. Affermazioni sì diverse ma che di fatto hanno la pretesa di dire che esiste solo ciò che può essere conosciuto dall’uomo, solo ciò che può essere totalmente esaurito dalla conoscenza umana, solo ciò che può essere totalmente compreso (da cum-prehendere, cioè da “contenere”) dalla mente umana. Tutto ciò che invece sfugge a questa “comprensione” non può esistere, in un certo qual modo: non deve esistere.
Ecco dunque come tanto il razionalismo quanto l’empirismo innalzano l’uomo e la sua attività conoscitiva ad unici criteri per l’esistenza del vero. È l’uomo che deve decidere cosa è vero e cosa è falso. È l’uomo che deve decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. È l’uomo che deve decidere ciò che è bene e ciò che è male.
Ma – come dicevamo all’inizio – avvenne la babele. Dio distrusse la Torre e confuse le lingue. L’uomo credeva di poter eguagliare Dio conquistando l’infinito, si ritrovò col dover constatare una maggiore e mortificante piccolezza, gli spazi si restrinsero, non poté più parlare con il suo vicino. L’incomunicabilità come segno dello smarrimento del vero e dell’uomo. 
La confusione genera il caos, ma a sua volta è generata dal caos. Da un caos metafisicamente inteso. Cioè da un caos che viene posto come criterio di tutto, dal disordine che deve sostituire l’ordine. Nella convinzione che la natura non abbia una sua logica ma che sia fatta per instaurare in essa il disordine, cioè il capriccio di riplasmare tutto a proprio piacimento e a proprio uso e consumo.
In realtà cosa vollero fare quei babilonesi costruendo una torre la cui cima doveva toccare il cielo? Niente altro che tradurre i propri desideri in diritti. Senza badare se questi possano essere conformi o meno all’ordine naturale delle cose, a quella logica costitutiva ed intrinseca della natura che non può permettere che il bene si trasformi in male e il male in bene, che il vero si trasformi in falso e il falso in vero, che il Creatore si trasformi in creatura e la creatura in Creatore. Scrive Benedetto XVI nella Deus Caritas est al n. 68: «Nessuno plasma la propria coscienza arbitrariamente, ma tutti costruiscono il proprio “io” sulla base di un “sé” che ci è stato dato. Non solo le altre persone sono indisponibili, ma anche noi lo siamo a noi stessi. Lo sviluppo della persona si degrada, se essa pretende di essere l’unica produttrice di se stessa. Analogamente, lo sviluppo dei popoli degenera se l’umanità ritiene di potersi ri-creare avvalendosi dei “prodigi” della tecnologia. Così come lo sviluppo economico si rivela fittizio e dannoso se si affida ai “prodigi” della finanza per sostenere crescite innaturali e consumistiche. Davanti a questa pretesa prometeica, dobbiamo irrobustire l’amore per una libertà non arbitraria, ma resa veramente umana dal riconoscimento del bene che la precede».

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