APOLOGETICA
La Storia fatta con i “se”
dal Numero 29 del 19 luglio 2015
di Corrado Gnerre

Cosa sarebbe della Storia che conosciamo, “se alcuni fatti fossero andati diversamente?”. L’antologia di studi storici curata da Cowley, ne propone interessanti alternative. Ma bisogna stare attenti: se “la Storia fatta con i se è un bel gioco”, bisogna però ricordare che essa non è qualcosa di “meccanico”, ma frutto di scelte e di qualcos’altro, non solo di caso.

Nel 2001 uscì la traduzione italiana (Rizzoli editore) di un’interessante antologia di studi storici, dal titolo What If. Il titolo della traduzione italiana è: La storia fatta con i se. Il testo è curato da Robert Cowley, direttore della celebre rivista MHQ (The Quarterly Journal of Military History). Questa rivista ebbe l’idea di invitare importanti storici del mondo accademico anglosassone a fare una sorta di “gioco”: cosa sarebbe accaduto della storia che conosciamo se alcuni fatti fossero andati in maniera diversa? Per esempio: Cosa sarebbe successo all’Occidente, se l’estate del 1529 non fosse stata così piovosa da ostacolare l’avanzata di Solimano il Magnifico? E ancora: Cosa sarebbe accaduto, se Napoleone non fosse stato sconfitto a Waterloo? E cosa sarebbe accaduto, se fosse fallito lo sbarco in Normandia?... Il risultato che ne è venuto fuori è appunto l’opera curata da Robert Cowley.
Quali considerazioni su un libro così originale? Come “gioco” va anche bene. Non sto banalizzando: per “gioco” intendo qualcosa di serio, un gioco “didattico”, per capire. Se lo studio della storia non è sempre apprezzato (lo si chieda agli studenti di scuola) è perché la storia viene presentata poco come “laboratorio”, cioè come “campo per capire”. Anzi: potrebbe essere utile anche immedesimarsi nelle situazioni, pensarsi “pedina sulla scacchiera” e chiedersi: Se mi fossi trovato al posto di quell’Imperatore, di quel generale, di quel condottiero, come mi sarei comportato, quali scelte avrei fatto? Per cui ben venga un libro come questo.
Ma se questo libro deve essere letto anche come un testo di filosofia della storia (cioè a conferma di una concezione della storia come esito solo del caso e di piccole circostanze, di banalità facilmente evitabili) allora non convince affatto. Cowley sembra però incanalarsi in questa prospettiva, tanto è vero che scrive: «Con i se non si fa la storia, dice il proverbio. In questo libro cercherò di dimostrare il contrario».
Qui sta l’errore. Mi spiego: una delle caratteristiche più originali della cultura occidentale è come questa si è posta dinanzi alla storia. Nella tradizione occidentale, sia per la filosofia della storia che per la storiografia, la storia è considerata come un divenire ineluttabile non per ciò che ancora deve accadere, ma per ciò che è già accaduto. E questa convinzione non è casuale. L’Occidente – piaccia o no – per la concezione della storia è “figlio” più della concezione ebraico-cristiana che non di quella della cultura classica. Fa propria una visione “rettilinea” della storia. Ciò che è avvenuto, non si ripeterà; e non tornerà proprio perché è già avvenuto. Un mito indù, per esprimere la grande distanza tra la concezione della storia orientale e quella occidentale, afferma che «la storia non è una freccia che vola»; cioè non è qualcosa che parte senza più tornare. Viceversa, per la tradizione occidentale, la storia è proprio una “freccia che vola”.
Questa concezione occidentale della storia vien fuori da una specifica antropologia e da una specifica concezione del tempo. Procediamo con ordine.
L’antropologia occidentale dichiara l’uomo artefice del suo destino e non vittima di decisioni altrui. È vero che non è un’antropologia che parla di libertà assoluta (l’uomo/creatura impedisce una convinzione del genere), ma è comunque un’antropologia che parla di libertà individuale dell’uomo nel procedere della storia. La storia è rettilinea perché non è prevedibile; e non è prevedibile perché non sono prevedibili le decisioni dell’uomo. Dal momento che è l’uomo a decidere (seppur relativamente) del suo destino, e dal momento che le sue decisioni possono essere tante e altrettanto imprevedibili, allora anche la storia diviene sempre “nuova” e “diversa”.
Ma dicevamo: a spiegare la concezione “rettilinea” della storia non è solo la tipica antropologia occidentale, ma anche una ben precisa concezione del tempo. Anzi, si dovrebbe dire: una ben precisa concezione sul rapporto tra Dio e il tempo. Un esempio: nelle culture orientali il divino è considerato non come creatore ma come emanatore da cui scaturisce (dunque per “emanazione” e non per “creazione”) un reale che, di fatto, reale non è. Non è un gioco di parole: dal divino, per emanazione, vien fuori tutto. Ciò vuol dire che non esiste differenza ontologica (cioè nella sostanza) tra il divino che emana e la realtà emanata. Creare vuol dire far nascere qualcosa dal nulla; emanare, fare in modo che la realtà possa esprimersi in modi diversi, rimanendo la stessa realtà. Queste concezioni si definiscono “monistiche”. E in queste concezioni monistiche il tempo è solo un’illusione, una finzione. Cosa che non può essere nel pensiero occidentale; perché, a differenza di quello orientale, Dio ha creato il mondo e non c’è un rapporto di uguaglianza sostanziale tra Creatore e creato. Il creato è “altro” rispetto a Dio; e Dio è “altro” rispetto al creato. Il tempo diviene una categoria reale perché legata ad un creato altrettanto reale. E Dio stesso non può fare in modo che ciò che è avvenuto non sia avvenuto. Il miracolo può “riparare” l’avvenuto, non annullarlo. Qui pensatori come sant’Agostino sono maestri.
Qualcuno, però, potrebbe obiet­tare: Cosa c’entra questo discorso con il libro di Cowley? Questo libro non vuole mettere in discussione l’irripetibilità della storia. Formula solo ipotesi. Anzi, finisce con l’inserirsi nella tipica concezione occidentale di leggere e valutare la storia. Attenzione. Non è così. Dire che la storia è irripetibile ed imprevedibile, non vuol dire che sia solo frutto del caso. Prima abbiamo detto che la concezione occidentale afferma che la storia è imprevedibile (e quindi “rettilinea”), perché imprevedibili solo le scelte che ogni uomo fa nella propria coscienza. Ma – e qui sta il punto – che forse l’uomo scelga casualmente? Che forse l’uomo sia solo un organismo cellulare senza tradizioni, affetti, volizioni e ragionamenti che lo spingano a scegliere?
Se la storia viene concepita come un puro susseguirsi di eventi senza novità (perché l’uomo non è artefice ma solo vittima), allora sì che tutto è già deciso. Ma se la storia viene concepita come un procedere di eventi sempre nuovi (perché l’uomo è protagonista di ciò che vive), ciò non vuol dire che tutto sia frutto del caso; perché c’è lui, c’è l’uomo che non decide a caso. Insomma, la scelta non è tra una storia già scritta e ripetitiva ed una storia frutto del caso. La scelta è sì tra la prima, ma con una storia, che pur essendo esito delle decisioni sempre nuove e diverse dell’uomo, è anche (il che non vuol dire “solo”) campo di intervento di qualcos’altro. E infatti se è vero – come ipotizza Cowley – l’assunto secondo cui se le cose fossero andate un po’ diversamente, si sarebbero avute conseguenze molto diverse; è pur vero che ancora oggi tanti storici si chiedono il perché di fatti inspiegabili con un’ordinaria indagine storica. Dice qualcosa l’eroismo di tanti semplici? E avvenimenti “misteriosi” come – per fare solo degli esempi – la fermata di Attila da parte di Leone I, la Crociata dei bimbi, la vittoria di Lepanto, la liberazione di Vienna nel 1683?
La storia fatta con i “se” è sì un bel gioco; ma sottende la convinzione che essa (la storia) sia qualcosa di meccanico: una sorta di “effetto domino”. E ciò non è tanto diverso dal dire: tutto è già stato deciso. Infatti, anche nella pura concatenazione meccanica vengono estromessi l’uomo e la sua libertà.

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