APOLOGETICA
Heidegger? Un filosofo per nulla innocuo...
dal Numero 23 del 7 giugno 2015
di Corrado Gnerre

Heidegger fa propria nel suo pensiero la svolta antropologica che pone l’uomo in un centro a se stante. Su questa base pericolante si fonda tutto il suo sistema filosofico che, scartata la metafisica, approda ad astrazioni poco convincenti.

Il tedesco Martin Heidegger (1889-1976) è certamente il filosofo di cui si parla di più negli ultimi tempi. Vediamo un po’ cosa dice e quindi che opinione averne.
Le sue opere importanti sono: Essere e Tempo (1927), Che cos’è la metafisica (1929), In cammino verso il linguaggio (1959), Tempo ed essere (1968).
Heidegger afferma la necessità di fondare una nuova ontologia, che a sua volta deve evitare due errori: il primo, studiare l’essere in quanto tale; il secondo, trascurare il problema dell’essere.
È necessario – secondo lui – studiare l’essere attraverso l’ente: l’essere non si manifesta mai direttamente, immediatamente, in sé, ma come l’essere di questo o di quell’altro ente, l’essere di uomo, di un cane, di un tavolo, ecc., nella loro singolarità. È ovvio che questo discorso porti a convincersi che l’uomo non debba essere più conosciuto attraverso Dio, bensì attraverso se stesso, per giunta attraverso la sua singolarità. L’uomo non deve essere conosciuto attraverso l’“idea di uomo”, ma attraverso la sua singolare e specifica condizione. Svolta antropologica che purtroppo farà propria, con conseguenze che scontiamo ancora oggi, anche una diffusa teologia contemporanea.
Per Heidegger, è l’uomo l’ente privilegiato attraverso cui conoscere l’essere, perché questi non è un ente qualsiasi, ma un ente che ha con l’essere un rapporto singolare: solo l’uomo può riflettere sull’essere e quindi ne può essere consapevole. Insomma, per poter adeguatamente rispondere alla domanda cosa è l’essere?, bisogna interrogare l’ente interrogante, cioè l’uomo, perché è solo lui che può porre la domanda sull’essere. Ma, per conoscere l’essere attraverso l’uomo, è necessario – e torniamo a ciò che abbiamo già detto – conoscere l’uomo nella sua singolarità, senza contaminazioni culturali senza generalizzazioni.
Heidegger vuole partire dall’uomo di fatto. E da qui sviluppa tutto il suo laborioso sistema... e (purtroppo per lui e per noi che le dobbiamo studiare) le sue astrazioni.
I tratti fondamentali dell’uomo in quanto tale – detti anche “esistenziali” – sono: esserci, esistenza e temporalità.
Per “mondo” Heidegger non intende la natura, bensì la cerchia di interessi, di preoccupazioni, di desideri, di affetti, di conoscenze, in cui l’uomo si trova sempre immerso. Per questo suo trovarsi sempre collocato in una situazione, Heidegger chiama l’uomo daisen, cioè esserci. L’essere nel mondo, pur importante, non è però la caratteristica fondamentale dell’uomo.
L’uomo non è legato alla situazione in cui si trova, bensì sarebbe aperto a diventare sempre qualcosa di nuovo. Molto di quello che l’uomo fa, lo farebbe in vista di quel che vuole essere domani. Heidegger chiama esistenza questa caratteristica dell’uomo di essere nei propri ideali, nei propri piani, nelle proprie possibilità. L’essenza (la natura) dell’uomo consisterebbe dunque nella sua esistenza. Una precisazione: criticare Heidegger non vuol dire convincersi che l’uomo possa essere alienato dalla sua singolarità storica, bensì affermare che tale singolarità storica non può dissolvere l’essenza dell’uomo. Ma procediamo con ordine...
L’uomo è un esistente perché legato essenzialmente al tempo. Egli non può riposare nell’essere, ma si trova sempre oltre se stesso, nelle sue possibilità future. Alla temporalità spetta la funzione di unificare l’essenza con l’esistenza. L’uomo è indirizzato al futuro, ma parte sempre da una situazione di fatto in cui si trova già, ed in questo senso è stato; ma, poiché deve far uso delle cose che lo circondano, è presente.
Tra i due primi esistenziali (esserci ed esistenza) c’è aperto contrasto: l’uno incatena l’uomo al passato, l’altro lo proietta verso il futuro. A seconda che l’uomo si lasci guidare dal primo o dal secondo, la sua vita sarà inautentica o autentica.
Conduce una vita inautentica o banale – dice Heidegger – chi si lascia dominare dalla situazione, dall’essere nel mondo, dalla “cura” per le cose. In questa vita chi detta legge è la massa: si conosce quello che conosce la massa, ci si diverte come si diverte la massa...
Conduce, invece, una vita autentica chi se l’assume come propria, se la forgia, se la costruisce secondo un proprio piano. Autentica è la vita di chi sente l’appello del futuro, delle proprie possibilità. In questo caso le situazioni possono essere due: vivere per la morte e l’angoscia.
Poiché fra le possibilità umane quella estrema è la morte, vive autenticamente solo colui che conduce la sua esistenza in vista della morte, in vista della possibilità di non esserci più. Per Heidegger la morte appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo, non è una possibilità lontana, ma costantemente presente. Heidegger chiama la morte “principium individuationis”, il principio formale della vita umana: come il frutto è tenuto insieme dalla buccia che lo limita, la informa, la preserva dallo snaturarsi, così la morte permette all’uomo di essere definito.
L’uomo diventa consapevole della sua soggezione alla morte nell’angoscia, che è un’altra disposizione fondamentale del suo essere. L’uomo non può sottrarsi all’angoscia. Se lo facesse, significherebbe che egli vuole nascondere e negare il carattere del suo essere, cioè la sua soggezione alla morte.
Fin qui – bisogna dirlo – le affermazioni di Heidegger sono per lo più condivisibili. Anzi, soprattutto alcune considerazioni sulla morte e quindi sulla riflessione della precarietà dell’esistenza umana come principio di autenticità della vita, sono da tener altamente in considerazione. Dove però Heidegger inizia a “fare acqua” è quando passa a quello che possiamo definire la seconda parte del suo pensiero. Scartata l’impostazione metafisica, Heidegger non può evitare di sballare. Seguitemi.
Per Heidegger bisogna rifiutare le definizioni tradizionali dell’essere, che sono: l’essere come ciò che fa presente l’ente e l’essere come ciò che si fa presente nell’ente.
Egli dice che l’essere si può solo dire che è ineffabile, che esiste ma che non è possibile cogliere la sua relazione con l’ente e che l’uomo è custode dell’essere ma non conoscitore dello stesso.
Dunque, proprio perché l’essere è indicibile e non conoscibile, è nulla. Ma attenzione nulla, non vuol dire inesistenza o assenza. A questo punto si chiarisce meglio il senso del “nichilismo heideggeriano”. Il nulla è l’ombra dell’essere. È, infatti, caratteristica essenziale dell’essere quella di mostrarsi e di velarsi. Secondo Heidegger, l’essere ritorna all’uomo nella sua essenza soltanto quando non sia più costretto nelle categorie logico-razionali della metafisica occidentale che lo definiscono (e lo circoscrivono) come: Dio, soggetto, ragione, scienza, progresso, ecc. L’essere appare allora come eterno e sacro; come la natura, sottratta alle categorie che l’hanno resa una grande “officina” del mondo, ritorna come terra sacra, celebrata dai poeti.
Che dire? Che pur di non riconoscere il limite dello stupore, Heidegger va a carte quarantotto. Come ho già detto, Heidegger dice cose belle sulla natura limitata dell’uomo, ma queste constatazioni, paradossalmente, lo conducono allo snaturamento del limite. Dire che l’essere non è sostanza ma evanescenza, dire che l’essere può essere colto non attraverso il metodo filosofico bensì attraverso quello poetico, vuol dire concepire l’essere non come realtà che riconduce l’uomo al vero, bensì come possibilità di emancipare l’uomo da qualsiasi vincolo. Insomma, Heidegger crede di liberare l’uomo dal dominio logico-razionale dell’essere; ma non solo non lo libera, lo rende schiavo di un’inconoscibilità del reale che si trasforma sempre e comunque in reali costruiti a proprio piacimento e che impietosamente lo dissolvono.
Infatti, c’è chi ha detto molto chiaramente che Heidegger giunge alla conclusione che non è l’uomo a disporre del linguaggio, bensì sarebbe il linguaggio a disporre dell’uomo. Insomma, non è l’uomo che parla ma il linguaggio (e, attraverso esso, l’essere) che parlerebbe nell’uomo.

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