APOLOGETICA
Civiltà greca, tutta bellezza e serenità? Sfatiamo un mito illuminista
dal Numero 04 del 23 gennaio 2022
di Corrado Gnerre

Celebrata da certa storiografia illuminista e post- illuminista, per contrapporla a quella cristiana, la civiltà greca non è poi così serena e bella come viene presentata a scuola: ospita uomini di fatto prigionieri e impotenti.

Quando si accusa il Cristianesimo di mortificare la libertà si dice una grande sciocchezza, basta pensare alla vita individuale di ognuno e a ciò che il Cristianesimo ha saputo produrre nella storia degli uomini. Su quest’ultimo aspetto (cioè sulla storia) basterebbe considerare ciò che vi era prima dell’avvento del Cristianesimo.

Facciamo l’esempio dell’antica civiltà greca, civiltà celebrata e innalzata da una certa storiografia illuministapost-illuminista anche per contrapporla a quella cristiana. Ebbene, a parte gli annacquamenti e le descrizioni oleografiche, com’era davvero questa civiltà? Erano davvero fortunati coloro che ci vivevano?

Niente affatto. Per prima cosa la libertà umana era di fatto inesistente, perché tutto era già definito e deciso dal Destino. Non a caso Erodoto (famoso storico greco vissuto nel V secolo a.C.) parla sì del divino, ma di un divino brutale che non lascia spazio alla libertà. E il divino della Grecia antica non solo poteva essere cattivo ma anche invidioso. Fu l’invidia degli dèi che colpì Creso nell’affetto dell’unico figlio, perché aveva avuto il “torto” di ritenersi il più felice degli uomini. E fu sempre l’invidia degli dèi che abbatté Serse dalla gioia delle sue speranze, quando già si illudeva di avere in pugno la vittoria.

Così come in tutte le civiltà precristiane, proprio a causa di questa mancanza di riconoscimento della libertà individuale degli uomini, anche in quella greca si sviluppò una concezione ciclica della storia, che era segno dell’impossibilità da parte del singolo uomo di influire sul corso degli avvenimenti. Alessandro di Afrodisia, celebre commentatore di Aristotele, pur vivendo in un periodo già di forte decadenza, era convinto (e lo espresse bene nella sua opera intitolata Sul Fato) che il mondo fosse caratterizzato da una concatenazione di cause e di effetti assolutamente necessari e che questa concatenazione non potesse essere interrotta da alcun volere umano.

L’uomo greco viveva felicemente? Dobbiamo noi invidiarlo?

La risposta viene da sé. L’uomo greco non solo avvertiva il peso esistenzialmente insopportabile di un senso d’invincibile impotenza (doveva ritenersi non libero), ma non poteva nemmeno condannare tutto ciò che di male gli sarebbe potuto capitare. Infatti, se si parte dalla convinzione che tutto è già deciso e che non c’è spazio per la libertà individuale, allora tutto ciò che accade diviene automaticamente giusto, perché già deciso ed immodificabile.

Certo, l’immaginario è quello che è, per cui se dicessimo di chiudere gli occhi e di immaginare la società della Grecia antica, siamo certi che verrebbe spontaneo a molti pensare ad un mondo luminoso, armonico, bello, dolce, piacevole. Purtroppo lascia il segno ciò che ci hanno insegnato e continuano ad insegnare a scuola. E – l’abbiamo già detto – ce lo hanno presentato così per fedeltà alla cosiddetta storiografia “post-illuminista” che giudica tutto buono ciò che non era cristiano e tutto cattivo ciò che lo era. Eppure basterebbe ragionare. Come ci si poteva sentire sereni in una situazione in cui si era costretti a constatare l’inesistenza della libertà di decidere e progettare il proprio futuro? Non è casuale che il vertice dell’espressione letteraria greca sia rappresentato dalla tragedia; e non perché l’uomo greco fosse un pessimista incallito, portato a vedere “tutto nero”, ma perché non poteva non constatare la dimensione tragica del suo esistere.

Un evento, se accadeva, significava che era stato voluto dal Destino, ma se era stato voluto dal Destino, significava che era buono, anche se si presentava come evento negativo o addirittura crudele. Secondo la nota leggenda, Atene doveva offrire periodicamente sette fanciulli e sette fanciulle a Minosse, re di Creta, perché li desse in pasto al Minotauro (un mostro dal corpo umano e dalla testa di toro che viveva confinato nell’inaccessibile labirinto di Dedalo). Ragioniamoci su. Minosse, per la mitologia greca, non era un personaggio negativo; anzi, per la sua giustizia, fu da Zeus eletto giudice nel regno degli Inferi. Ciò vuol dire che la storia è storia e basta. Il tentativo di modificare gli eventi può essere solo giustificato dal peso di viverli (Teseo arrivò ad uccidere il Minotauro), ma non dalla convinzione che ciò che accade nella storia sia ingiusto: Minosse dava in pasto al Minotauro i fanciulli inviati da Atene, eppure venne premiato da Zeus come giusto, il che vuol dire che secondo la mentalità greca tutto ciò che avviene nella storia, solo perché avviene, è di per sé giusto.

Così, non era raro che l’eroe greco agisse in maniera crudele; e, cosa ancora più significativa, la sua eventuale crudeltà non gli impediva di essere considerato come eroe positivo. Nell’epica classica l’agire è del tutto autonomo dalla morale; ha, cioè, come punto di riferimento non la morale, ma altro: la forza, l’ingegno, ecc… Achille è eroe per forza e ardimento, Ulisse per ingegno e scaltrezza. E proprio perché la morale non costituiva un vincolo, in questi eroi la forza diveniva violenza brutale e l’ingegno diveniva frode. Si vada a leggere il canto XXII dell’Iliade e si vedrà che non vi è alcun sentimento morale in Achille che fa scempio del cadavere di Ettore.

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