APOLOGETICA
La menzogna antropologica del mito di Prometeo
dal Numero 9 del 3 marzo 2013
di Corrado Gnerre

Prometeo, l’uomo che credeva di elevare la sua condizione sostituendosi a Dio. è il tentativo di molti. Basterebbe chiedersi con Leopardi: “...io che sono?”, per comprendere che una risposta non la si trova in se stessi... vogliamo noi prescindere dall’Autore della nostra vita? Sarà allora una vita di menzogna.

    Secondo il celebre mito, Prometeo rubò il fuoco agli dei per cercare di migliorare le condizioni dell’uomo.
    Su questo punto però va fatta una precisazione. Prometeo non rappresenta semplicemente l’uomo che vuole realizzare se stesso. Né rappresenta semplicemente l’uomo che vuole migliorare la sua vita. Ovviamente questo desiderio è del tutto naturale, in un certo qual modo è costitutivo dell’esistere umano. Si tratta di un desiderio perfettamente conforme alla propria umanità. Ognuno di noi cerca il meglio per se stesso. Ognuno di noi cerca di realizzare quanto è più possibile la propria vita.
    Dove però è distintivo il comportamento di Prometeo? C’è infatti qualcosa di peculiare nel suo comportamento, tanto è vero che da Prometeo è venuto fuori anche un aggettivo: “prometeico”. Prometeo non rappresenta semplicemente il desiderio dell’uomo di realizzare se stesso. Rappresenta anche un’altra cosa, che rende ragione dell’uso che si fa dell’aggettivo “prometeico”. Quando si sente parlare di atteggiamento prometeico o di cultura prometeica, si fa riferimento ad atteggiamenti e culture che credono di poter realizzare l’uomo invitando l’uomo stesso a fare a meno del divino, a sostituirsi a Dio. Prometeo credette di poter migliorare la condizione umana sfidando il divino.
    Adesso non è il caso trattare di una questione che è pure importante, e cioè se gli dei del mondo classico fossero simpatici o non simpatici (non erano affatto simpatici!), se gli dei del mondo classico sfogassero i loro fastidiosi ed impietosi capricci sulle vicende umane (lo facevano!)... non è il caso trattare di questo. La questione è invece un’altra, è che Prometeo è diventato il simbolo universale di colui che crede che più si toglie spazio al divino e più l’uomo può essere libero. In questo senso Prometeo è indubbiamente un simbolo fallace e antropologicamente pericoloso.
    Il divino non solo non impedisce la realizzazione umana, ma è ciò che è indispensabile affinché l’uomo possa realizzare se stesso. Senza Dio, l’uomo non può nemmeno conoscere se stesso. Non può capire qual è il suo ruolo nel tempo e nello spazio, cioè nel suo esistere.
    Tra la poetica del Leopardi e il mito di Prometeo non vi è nessun rapporto diretto, ma voglio offrire alla lettura alcuni celebri versi del Poeta recanatese perché permettono di fare qualche importante riflessione. Nel suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia Leopardi immagina una persona semplice (un pastore) che dinanzi alla maestosità della natura si lascia andare a delle considerazioni che il Poeta esprime in versi sublimi: «Spesso quand’io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel confina; / ovvero con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dire questa / solitudine immensa? Ed io che sono?». Insomma, Leopardi ci dice che questo pastore intento a pascolare il suo gregge si mette dinanzi alla grandezza del cielo, alla sua bellezza, alla sua maestosità e si chiede: Perché ci sono tante stelle? Che senso ha questo universo così grande? Perché esiste l’infinito? È mai possibile che la grandezza dell’Universo sia qui presente per la mia piccolezza? È mai possibile che la grandezza dell’Universo sia qui presente affinché io – così piccolo – possa ammirarla? È possibile mai questo?... Poi, dopo tutti questi interrogativi espliciti ed impliciti, il pastore chiude chiedendosi: ...e io che sono? Cioè: qual è il mistero della mia vita?
    Il mistero del cielo stellato impone un altro mistero: quello dell’uomo. Chiediamoci allora: chi può rispondere alla domanda del pastore di Leopardi (...e io che sono?)? L’uomo no. L’uomo non può rispondere affatto a questa domanda. Quando si compra un oggetto che per utilizzarlo deve essere montato, ovviamente si deve leggere, prima del montaggio, il libretto delle istruzioni. Se si pretende di fare da sé, può andare bene... ma si deve avere un bel colpo di fortuna. Non si può pretendere di prescindere dal libretto e pensare: io conosco questo oggetto meglio di coloro che l’hanno progettato e prodotto. Una tale convinzione sarebbe assurda. Altrettanto assurda è la posizione dell’uomo che cerca una risposta al mistero della sua vita ben convinto di non essere stato lui a darsi la vita. Per sapere come montare un oggetto devo chiedere informazioni a chi l’ha fatto. L’uomo si è fatto da sé? Ovviamente no. E allora non può lui, da solo, rispondere a questa fondamentale domanda. 
    Torniamo a Prometeo. Fermo restando il desiderio di migliorare la propria vita, fermo restando il desiderio altamente umano di realizzare più pienamente la propria esistenza, dov’è che Prometeo sbaglia (lasciamo stare la situazione contestuale in cui poteva anche aver ragione... non ci interessa)... dicevamo: dov’è che Prometeo sbaglia? Sbaglia nel credere che tale realizzazione si possa attuare “autodivinizzando” l’uomo. E questo è un gravissimo errore. Gravissimo, perché c’è la domanda del mistero dell’esistere, ovvero la domanda del pastore di Leopardi: ...e io che sono?
     Questa è la domanda di tutte le domande. Qui il mito di Prometeo fallisce... perché per rispondere a questa domanda bisogna procurarsi il “libretto delle istruzioni” dell’esempio fatto precedentemente. È che tale “libretto” non lo può scrivere l’uomo.
     L’uomo per essere grande deve scoprire la verità e sottomettersi ad essa. “Scegliete la verità, perché è la verità che vi farà liberi” (cf. Gv 8,32). Non può esistere una libertà senza verità. E se la verità ci dice che siamo limitati, dobbiamo trovare la nostra realizzazione nel limite... non in una “prometeica” autosufficienza.

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