APOLOGETICA
L’arte contemporanea come “caso psichiatrico”
dal Numero 27 del 7 luglio 2013
di Corrado Gnerre

Succede che l’immaginazione tradisca il reale; è il caso dell’arte contemporanea, quando un elemento viene estratto dall’uso comune e... reso “arte”. La bellezza diviene soggettiva e tutto diventa arte, mentre invece... sembra il caso di parlare di “caso psichiatrico”!

Alessandro Masi ha scritto un interessante libro dal significativo titolo: Jekyll, Hyde e lo strano caso dell’arte contemporanea. Annotazioni iconografiche sulla schizofrenia (Luca Sossella Editore, Roma 2006). L’Autore afferma che l’arte contemporanea può essere analizzata servendosi di categorie e giudizi mutuati dalla psichiatria. Egli scrive a pagina 15: «La nevrosi dell’arte moderna ha inizio [...] con il cessare del battito della certezza dell’univocità della visione (morale) come processo e strumento della conoscenza esterna (la prospettiva ottica) e con il relativo distacco dal mondo esterno verso la scoperta dei nuovi paesaggi interiori (surrealtà o metafisica)».
È la perdita del fondamento a determinare la caratteristica dominante dell’arte contemporanea. Una caratteristica che si esprime nel rifiuto della realtà e nel conseguenziale rifugio in prospettive surreali, cioè nella pura immaginazione.
La parola “immaginazione” può essere intesa in un duplice modo: a servizio del reale o contro il reale. Dall’immaginazione viene fuori la fantasia ma questa non si pone alternativamente alla realtà, nel senso di voler cancellare ciò che è vero, quanto sublima il reale. “Sublimare” viene da “sub-limen” che significa “oltre la soglia”. Andare “oltre la soglia” della realtà vuol dire cercare di cogliere ciò che non si vede della realtà ma che è comunque parte integrante della realtà stessa. La fantasia non nega la realtà, fornisce piuttosto una chiave di lettura affinché si possa cogliere integralmente (in ciò che si vede ma soprattutto in ciò che non si vede) la realtà stessa. Il grande scrittore inglese Tolkien (autore della famosa trilogia Il Signore degli anelli) lo spiega molto bene. Così disse al suo amico e collega Clive Staples Lewis: «Guardiamo gli alberi, e li chiamiamo “alberi”, dopo di che probabilmente non pensiamo più alla parola. Chiamiamo una stella “stella”, e non ci pensiamo più. Ma bisogna ricordare che queste parole, “albero”, “stella”, erano (nella loro forma originaria) nomi dati a questi oggetti da gente con un modo di vedere diverso dal nostro. Per noi un albero è, semplicemente, un organismo vegetale, e una stella semplicemente una palla di materia inanimata che si muove lungo una rotta matematica. Ma i primi uomini che parlarono di “alberi” e di “stelle” vedevano le cose in maniera del tutto differente. Per loro, il mondo era animato da esseri mitologici. Vedevano le stelle come sfere di argento vivo, che esplodevano in una fiammata in risposta alla musica eterna. Vedevano il cielo come una tenda ingioiellata, e la terra come il ventre dal quale tutti gli esseri viventi sono venuti al mondo. Per loro, tutta la Creazione era intessuta di miti e popolata di elfi».
Ma – dicevo – dall’immaginazione può venir fuori non solo la fantasia, può venir fuori anche il surrealismo... che non è proprio la stessa cosa. Surrealismo vuol dire superare la realtà, ma non nel senso indicato precedentemente. “Superare” per “stravolgere”, per “rivoluzionare” il reale. Per convincersi che la vera realtà non è in ciò che si pone dinanzi, bensì in ciò che è frutto della volontà di potenza del pensiero, dell’immaginazione, del potere immaginifico.
Ebbene, l’arte contemporanea fa propria non la dimensione fantastica ma quella surreale, non la fantasia ma il surrealismo. Tutto questo – lo ripeto – perché si vuole negare il fondamento, si vuole negare l’essere, si vuole negare la metafisica. Masi continua e precisa: «Dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri l’artista, come lo schizofrenico, “non vive più nel mondo comune, ma in un mondo privato”, in un universo di valori traslato e al di fuori dello spazio temporale e geografico, in un paesaggio separato (Maurice Merleu-Ponty, Fenomenologia della percezione). Egli ha operato un distacco dalla realtà che sa di definitiva liberazione perfino dai vincoli morali e propriamente estetici dell’opera d’arte che sono alla base della nozione stessa di valore ed essenza». 
Masi dunque sottolinea due elementi: il valore e l’essenza. Due elementi necessari per l’indagine metafisica. Il valore attiene al campo pratico-morale, l’essenza a quello teoretico-conoscitivo. Entrambi dispongono obbligatoriamente verso una dimensione oggettiva. Valore viene dal latino valeo che vuol dire “permanere”. È valore ciò che non muta, ciò che permane nel tempo, ciò che è sempre oggettivamente riconoscibile come tale. L’essenza è ciò che permette l’universalità della conoscenza. Masi giustamente dice che l’arte contemporanea ha fatto proprio il metodo fenomenologico. Egli fa un esplicito riferimento alla Fenomenologia della percezione di Merleu-Ponty. Insomma, ciò che conta è ciò che appare al soggetto, ciò che è percepito da colui che produce l’arte. Ciò che conta non è la realtà in sé: il fenomeno e non il kantiano noumeno.
A riguardo non si può non fare riferimento ad una celebre “opera”, La fontana, di Marcel Duchamp, del 1917. Si tratta, con decenza parlando, di una sedicente opera d’arte fatta solo con un orinatoio in porcellana, che Duchamp acquistò da un idraulico di New York. Da allora si è parlato di ready-made, uno stile tipico del dadaismo: prodotti di uso quotidiano tolti dalle loro ordinarie situazioni per metterli in mostra come opera d’arte. Duchamp volutamente firmò questa sua “opera” con uno pseudonimo (R. Mutt) per far capire che è importante sapere chi avesse realizzata l’opera, quanto chi l’avesse scelta. Ciò che conta non sarebbe l’atto creativo quanto l’idea e la scelta. Due elementi su cui riflettere: da una parte l’inconvenienza dell’oggetto (uno sgradevole orinatoio), dall’altra la pretesa di proporlo come arte solo perché esito di una scelta. L’inconvenienza dell’oggetto sta a significare il voluto rifiuto di ciò che è nobile, alto, superiore, elegante. Non essendoci una realtà da riconoscere oggettivamente, salta la categoria del pudore e tutto diviene volgarmente indistinto. La scelta, e non l’atto creativo, come discrimine per l’arte: è arte ciò che l’artista sceglie, indipendentemente da ciò che sceglie. Tutto questo pone ancor più protagonisticamente la dimensione soggettiva: il bello sarebbe deciso da un atto umano. Ciò che l’artista sceglie va giudicato, considerato e – ahinoi – apprezzato: anche uno sgradevole orinatoio!
Siamo proprio nel campo della psichiatria.

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