ATTUALITÀ
Storia di una lotta a lieto fine
dal Numero 34 del 31 agosto 2014
di Lazzaro M. Celli

Un fatto di cronaca, una storia vera che comprende chissà quante altre storie simili. Una donna creduta ormai spacciata, si risveglia miracolosamente da un lungo coma e spiega come dietro quell’apparente ostinato sonno, vi sia invece la vita.

Il fatto. Ottimista, sportiva, dinamica fino al 13 luglio del 2009, quando una forte emicrania sembra volerle fare esplodere la testa. Non riesce neanche più a mangiare perché il cibo le entra nella trachea, anziché nell’esofago. Nonostante i numerosi accertamenti, i medici non comprendono la causa di quella singolare sintomatologia. Fu per studiare meglio il caso che fu messa in coma farmacologico, senza che rischiasse la vita. Aveva 57 anni Angèle Lieby quando le si sbarrarono le porte dell’esistenza ordinaria.
Un altro punto di vista. La sua potrebbe sembrare una comune storia di una persona entrata in coma, se raccontata con gli occhi di chi vive il dramma dall’esterno. Se invece proviamo a rievocare quello che successe oltre la stanza ospedaliera, oltre lo sguardo dei medici, delle infermiere e dei parenti; se ci caliamo nel buio in cui si trovava Angèle e proviamo a narrare la storia con la sua voce, scopriamo un misterioso mondo che la presunzione dell’uomo lontano da Dio non comprende.
Una voce dal buio. «Mi sono svegliata ed ero nel buio più completo. Per i medici non esistevo. Non si rendevano conto che ero viva. Ero in un corpo immobile, un tronco d’albero. Volevo reagire, ma l’involucro che mi avvolgeva era una pietra dura, una scorza che m’ingessava. Non potevo compiere il minimo movimento, nemmeno aprire gli occhi. Pregavo Dio, anche altri dèi.
All’inizio non mi resi conto dov’ero. Poi compresi [...] il rumore dei macchinari, le discussioni dei sanitari. Perché sono in questa gabbia, in questo sarcofago? Sono come murata viva! Perché non si accorgono che sono viva? Sto gridando, ci sono! Perché non mi sentite? Sono viva e provo dolore. Gli esperimenti che fate sul mio corpo, per vedere se reagisco, mi provocano molta sofferenza. Lasciatemi in pace, altrimenti ad uccidermi sarà il dolore che mi causate. Perché fate di me e del mio corpo tutto quello che volete?
Oh... finalmente, mio marito, mia figlia. Quanto amore! La loro voce mi rinfranca, mi calma, mi rasserena. Perché anche voi non mi sentite? No! No! Cosa dice quel medico! Non l’ascoltate, non è vero! No Ray, non dargli ascol­to! Non sono morta. Non ti devi preoccupare del funerale. Non devono staccare la spina. Sarebbe un omicidio! I macchinari dicono che solo il cuore funziona. Sbagliano! Ci sono!
Bravo Ray! Glielo hai detto. Non avresti mai dato il permesso di staccare la spina. Sei il marito che non mi ha mai deluso, nemmeno in questo momento così vitale. Com’è possibile che i medici anziché impiegare le loro energie per dare speran­za, la distruggano così presto? Devo assolutamente mandare ai miei un segno della mia presenza. Ma come? Il cuore!? Non vedete l’aumento della frequenza del battito cardiaco? Quando mi parla una persona di famiglia, mi suscita emozioni, il battito aumenta. Com’è possibile che non capite? No! Non è il segno che sto per morire. È proprio il contrario. È il segno che sono viva; viva, capite!
Oh Cathy, sei tu!? Com’è bello sentire la tua voce, figlia mia. Sì lo so che ti prendi cura del babbo, so che lo fai egregiamente. Dici davvero? È meraviglioso! Vuoi un terzo figlio. Certo che voglio assolutamente conoscerlo! Io non sono morta, come faccio a farvelo capire! [...] Il mio volto è solcato da una lacrima. Sento Cathy che avverte le infermiere. No! Cosa dite? Non è gel. Perché non le credete? Sono vere lacrime! Perché i medici non prestano fede all’accaduto? Non sanno interpretare i segni? Per fortuna ci siete voi qui con me. Oh mio Dio, grazie per la famiglia. Ray, sento la tua voce. Mi parli con più convinzione, l’avverto. Sì voglio dartelo un segno. Ecco: il mignolo si muove impercettibilmente, ma si muove. Oh grazie mio Dio, se n’è accorto. Ora anche lui è convinto. E penso ai tanti comatosi che nelle mie stesse condizioni non ce la fanno a lanciare un segnale, forse perché non sono combattivi come lo sono io; lasciano che la speranza si affievolisca prima in loro e poi negli altri, in quelli che sono dall’altra parte del mondo»[1].
   La ripresa. Dopo il mignolo Angèle ha gradatamente ripreso a svolgere tutte le sue funzioni. All’inizio vedeva doppio, anche triplo, riusciva a malapena a muovere le dita. Aveva disturbi all’udito. Ha dovuto imparare tutto da capo, come i bambini. Non era in grado neanche di ingoiare la sua saliva e per riprendere a respirare da sola ci son voluti circa sei mesi di riabilitazione.
La superbia della scienza medica. A cinque anni dal risveglio, Angèle, non ha rancori. Vuole solo dire ai medici di avere più rispetto per i pazienti, di non comportarsi come si sono comportati con lei. Purtroppo quando ha raccontato la verità al medico della struttura in cui è stata accolta e che si era “preso cura” di lei, si è sentita rispondere che avrebbe rifatto esattamente tutto quello che aveva già compiuto ad Angèle, come da protocollo.
Questa è la straordinaria testimonianza di una donna uscita dal coma e che racconta la storia di un mondo reale che la scienza ha già erroneamente deciso di classificare come “aldilà”; come un mondo in cui la vita è ridotta allo stato vegetativo e che, dunque, non vale più la pena vivere.

[1] Cf. Angèle Lieby, Una lacrima mi ha salvato, Edizioni San Paolo.

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