ATTUALITÀ
Il divorzio cisto da mons. Luigi Carli e da altri vescovi
dal Numero 27 del 6 luglio 2014
di Federico Catani

Mons. Luigi Carli, nei brucianti anni ’70, non ebbe paura di insegnare la Verità di Cristo in tema di divorzio. Egli l’affrontò sotto il triplice aspetto del cittadino italiano,
del cattolico e del vescovo.

Quarant’anni fa, il 12 e 13 maggio 1974, in Italia si tenne il referendum per abrogare la legge 898, nota anche come Baslini-Fortuna, con la quale il 1° dicembre 1970 era stato introdotto il divorzio. Prima di quella fatidica e funesta data, il Codice Civile Italiano, approvato con regio decreto nel 1942, stabiliva, all’art. 149, comma 1: «Il matrimonio non si scioglie che con la morte di uno dei coniugi». Un’affermazione senza equivoci, conforme al diritto naturale e alla Morale cattolica. Purtroppo, però, nella battaglia referendaria, i cattolici (e il buon senso) subirono una pesantissima sconfitta: il “No” all’abrogazione ottenne il 59,1%, mentre il “Sì” solo il 40,9%. Il volto dell’Italia era radicalmente cambiato rispetto al passato.
La Democrazia Cristiana, che pure aveva le sue responsabilità per non essersi opposta come avrebbe dovuto alla nuova normativa, ufficialmente si schierò per l’abrogazione e quindi per il “Sì”. Il suo segretario Amintore Fanfani, che si batté come un leone, non ebbe però un grande appoggio dal partito, troppo preso ad inseguire le mode del momento e a non rompere l’alleanza con le sinistre. Trovò però dei validissimi alleati in Luigi Gedda, storico dirigente dell’Azione Cattolica ai tempi di Pio XII, nonché fondatore dei Comitati Civici, fortemente anti-comunisti, e Gabrio Lombardi, che guidò il Comitato per l’abrogazione della legge divorzista. Tra i cattolici che non tradirono ci furono Augusto Del Noce, Enrico Medi e Giorgio La Pira. Molti altri invece, i cosiddetti “cattolici per il no”, si allontanarono dal Magistero della Chiesa: si trattava di nomi del cattolicesimo progressista e democratico italiano, ancora oggi dominante nelle nostre parrocchie, nelle nostre diocesi e nella nostra vita politica. Contro questi falsi cattolici tuonò anche papa Paolo VI, che rivolgendosi agli sposi novelli, il 15 maggio 1974, parlò del triste esito referendario così: «Ciò è per noi motivo di stupore e di dolore, anche perché a sostegno della tesi, giusta e buona, dell’indissolubilità del matrimonio è mancata la doverosa solidarietà di non pochi membri della comunità ecclesiale; vogliamo supporre che essi abbiano agito senza rendersi pienamente conto delle gravi incidenze del loro comportamento, anche se l’autorevole e pubblico richiamo fatto alle esigenze della legge di Dio e della Chiesa non avrebbe dovuto lasciare alcun dubbio. Questa legge, ricordiamolo, non è cambiata; e perciò, affinché tale comportamento non si converta in loro perpetuo rimorso, vogliamo auspicare che anch’essi effettivamente si facciano con noi, cioè con la Chiesa cattolica, promotori della vera concezione della famiglia e della sua autentica fioritura nella vita». Ricordiamo invece che si oppose decisamente al divorzio il Movimento Sociale Italiano, guidato da Giorgio Almirante, il quale invitò gli italiani a non votare come i comunisti e le Brigate Rosse.
Durante la campagna referendaria prese posizione anche l’episcopato italiano. Se molti presuli furono timorosi, minimalisti e quasi conniventi con i divorzisti, altri mostrarono grande coraggio e combattività. Tra coloro che parlarono chiaro ci furono 24 vescovi, firmatari di un appello in cui si esortava i cattolici «a seguire una linea di condotta precisa ed inequivocabile ed operare in concreto, senza perplessità, perché sia salvaguardata l’unità della famiglia, ed il divorzio, una delle peggiori iatture della società civile, venga risparmiato all’Italia. Siamo pertanto convinti che sia precipuo dovere di tutti i cattolici rimanere saldi e forti nella fede e vivere in adesione al messaggio evangelico, per non cedere di fronte alla progressiva decadenza dei valori etici e morali della nostra società».
Intervenne poi l’arcivescovo di Genova, il card. Giuseppe Siri, che parlando ai suoi fedeli poco prima del referendum, disse: «Uno è libero di essere peccatore, assassino, ladro quanto vuole, nella misura in cui è libero di andare all’inferno piuttosto che in Paradiso [...] I fedeli ora sanno come regolarsi: se voteranno No all’abrogazione del divorzio, non credano di essere d’accordo con Dio». Anche il card. Alfredo Ottaviani, ex prefetto del Sant’Uffizio, ormai pensionato e quasi del tutto cieco, seguì con attenzione l’evento, annotando sul suo diario: «La possibilità del divorzio, data la decadenza del costume e la seduzione delle passioni, produrrebbe un funesto effetto anche in quei cattolici che, pur sapendo l’illiceità del divorzio, se ne servirebbero per secondare le passioni. Quindi il divorzio faciliterebbe la corruzione dei costumi anche nel campo cattolico».
Ma già nel 1970, qualche giorno dopo l’approvazione della legge, un altro coraggioso successore degli Apostoli mantenne la posizione: stiamo parlando di mons. Luigi Carli, vescovo di Segni, il quale si rivolse ai suoi fedeli con una lettera pastorale che qui vogliamo riprendere.
«L’introduzione del divorzio nella legislazione civile italiana – scrisse – è un avvenimento tanto grave, in se stesso e per le conseguenze che provocherà infallibilmente nel costume morale della nazione, che passarlo sotto silenzio sarebbe una colpa imperdonabile». Mons. Carli affrontò il tema sotto il triplice punto di vista del cittadino italiano, del cattolico e del vescovo. «Come cittadino italiano – affermò – mi sento triste per la legge in se stessa e per il modo come a essa si è giunti». «Con questa legge, infatti – continuava il Vescovo –, si incoraggia la leggerezza nel contrarre matrimonio; si legittima e si premia l’infedeltà coniugale; si lasciano, invece, indifese le vittime innocenti dell’egoismo e della passione, la moglie e i figli [oggi invece sappiamo che il divorzio conviene più alle donne che agli uomini!]. In una parola, la saldezza e sanità della famiglia italiana – uno dei pochi beni che ancora ci rimaneva – è stato miseramente dilapidato dai nostri legislatori».
Il Vescovo, inoltre, condannò anche le strane alleanze costituitesi in favore del divorzio: «Non vengano i liberali a parlare di repubblica conciliare o di anticomunismo, essi che si sono legati in connubio coi comunisti per realizzare la repubblica divorzista, e hanno consentito che la legge sul divorzio passi alla storia con l’etichetta di un binomio liberal-marxista! E i marxisti di tutte le tinte non vengano a cianciare di anticapitalismo, essi che non hanno disdegnato, per il divorzio, i voti determinanti dei capitalisti! Coerenza e lealtà diventano merce sempre più rara sul mercato della vita politica! Ai primi che, occorrendo, sanno appellarsi alle ragioni per cui essi “non possono non dirsi cristiani”; ai secondi che, quando gli fa comodo, salutano in Cristo “il primo socialista del mondo”, io pongo una semplice domanda: Come la mettete adesso col Cristo del Vangelo, il quale ha detto: “L’uomo non separi quel che Dio ha congiunto [...] Chiunque rimanda la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio in rapporto alla prima: e se una donna rimanda il proprio marito e ne sposa un altro, commette adulterio”? Ve la sentite di accusare il Cristo del Vangelo come uno che, con l’indissolubilità coniugale, avrebbe comandato una cosa incivile e barbara, contraria al vero progresso del popolo?».
Parlando invece come cattolico, mons. Carli osservò che l’approvazione del divorzio, per la quale da decenni lavorava la Massoneria, era un’offesa a Dio e un’umiliazione per la Chiesa. Tuttavia, i responsabili erano stati per molti versi gli stessi cattolici. Scrisse: «A un re francese del secolo XVI si attribuisce la frase: “Parigi val bene una Messa”. Speriamo che nel caso nostro risulti infondato il dubbio che i cattolici abbiano detto, a fatti se non a parole: “Un governo val bene il divorzio!”. Certo si è che fu escogitato l’espediente di distinguere tra un governo il quale, nonostante la maggioranza in esso dei cattolici, si dichiara neutrale su un argomento di tanta importanza come il divorzio, e una ibrida maggioranza parlamentare, antigovernativa per i 2/3 e governativa per l’altro terzo, che viene lasciata libera di adottare il divorzio e di violare il Concordato e poi, sul piano diplomatico, dal medesimo governo sedicente neutrale viene difesa e assolta per non aver commesso il fatto della violazione del Concordato! Un simile espediente non può tranquillizzare nessuno, perché esso rassomiglia troppo da vicino a quello di Ponzio Pilato».
Infine, da vescovo, auspicò l’uso del referendum e ribadì alcuni punti fermi: «Nessun cattolico potrà mai in coscienza utilizzare la legge del divorzio per far sciogliere dalle autorità civili il proprio matrimonio religioso. [...] Ci si ricorderà che Dio giudica le coscienze non in base alla legge civile italiana, ma in base alla legge incorruttibile del Vangelo. Il solo matrimonio valido tra cattolici è, e rimane anche dopo la legge divorzista, quello indissolubile celebrato di fronte alla Chiesa. Ogni altra unione, anche se consentita dalla legge civile, per la Chiesa non è né valida né lecita: sarebbe concubinato o adulterio. E quei cattolici i quali realizzassero tali unioni, si metterebbero essi stessi nella situazione di pubblici peccatori e, fino a che vi permangono, la Chiesa si vedrebbe costretta ad escluderli dai sacramenti e da altri riti sacri». Peraltro, aggiunse che, oltre all’obbligo di frequentare corsi prematrimoniali, «prima della celebrazione del matrimonio religioso, mediante una dichiarazione scritta, i nubendi dovranno espressamente escludere qualsiasi intenzione di voler in seguito usufruire della legge civile del divorzio», pena la nullità del matrimonio stesso. A conclusione della sua lettera, mons. Carli dichiarò: «La presenza di una legge civile divorzista costituirà da ora in poi una continua tentazione, un continuo invito al male per i cristiani d’Italia. Non ce n’era davvero bisogno; è già tanta la debolezza congenita dell’uomo; sono già tante oggi le occasioni peccaminose che gli rendono difficile la vita morale e religiosa. Ormai, soltanto in fede cosciente, illuminata e vissuta coerentemente, il cristiano potrà attingere la forza per superare la tentazione». La storia gli ha dato tristemente ragione.
Visti i tempi in cui ci troviamo a vivere, queste parole e prese di posizione sono una ventata d’aria fresca, che ci rinfranca. Ma stanno a testimoniare altresì il baratro in cui siamo precipitati nel giro di quarant’anni. Oggi, infatti, chi parlerebbe più così?

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