ATTUALITÀ
Per 4 volte consigliano l’aborto, ma la bambina nasce sana
dal Numero 40 del 18 ottobre 2020
di Francesca Romana Poleggi

Si sa che in molte cliniche, nel caso si sospetti una condizione patologica nel bambino, l’aborto è consigliato per evitare guai giudiziari e dispendiosi risarcimenti. Ciò che forse si ignora è che questa prassi immorale uccide molti bambini sani. Come insegna la storia di Penelope.

La discriminazione letale contro i bambini potenzialmente disabili è atroce: se i medici rilevano una potenziale disabilità o anomalia genetica in utero, ai genitori viene immediatamente e insistentemente prospettato l’aborto.

Da un lato, il sistema giudiziario e normativo spinge i professionisti alla cd. “medicina difensiva”: molti ginecologi consigliano l’aborto per evitare di essere chiamati a risarcire centinaia di migliaia di euro per “danno di nascita” (sic!). Dall’altro lato, la mentalità eugenetica nazista (che – ricordiamo – è molto più antica del nazismo; ha avuto origini, si è diffusa e continua a dilagare innanzitutto in ambiente anglosassone. Sir Francis Galton era un uomo dell’Ottocento, morto nel 1911...) si è ben sposata con il materialismo edonistico dei nostri giorni, per cui in troppi considerano certe vite “non degne di essere vissute”.

E perciò, tra i milioni di vittime innocenti dell’aborto c’è un’alta percentuale non solo di bambini disabili o comunque “imperfetti”, ma c’è pure un enorme numero di bambini sani vittime di diagnosi prenatali superficiali o errate.

Dall’Inghilterra ci arriva l’ennesima riprova che le previsioni terribili dei medici a volte sono sbagliate.

The Scottish Sun ha raccontato che, alla dodicesima settimana di gravidanza, a Penelope era stata rilevata idrope fetale, un accumulo anormale di liquido attorno ai suoi organi vitali: una condizione incompatibile con la vita. A 16 settimane, incredibilmente l’idrope era scomparsa, ma le è stato diagnosticato un igroma cistico.

Per ben quattro volte i medici hanno detto che era improbabile la sopravvivenza della bambina. E Kimberly, la mamma di Penelope, ha rilevato come tutte le volte l’aborto le fosse stato prospettato non come “una” possibilità, ma come l’“unica” via percorribile: la donna viene indotta a credere di essere incinta di qualcosa di mostruoso e non di un bambino che ha/avrebbe ancor più bisogno di cure e di amore per affrontare la vita. Anzi, spesso è indotta a credere di essere una madre “snaturata” ed egoista, se vuole far nascere a tutti i costi un bambino che avrà una vita breve e infelice.

Intanto, la gravidanza di Kimberly è proseguita e a maggio Penelope è nata perfettamente sana: dopo un attento screening neonatale i dottori, increduli, sono rimasti senza parole.

Di casi come questo di Penelope se ne contano sempre di più. Ma è anche vero che gran parte delle diagnosi si rivelano corrette: il bambino nasce disabile e vivrà una vita (lunga o breve, o brevissima) nella disabilità. Una vita, quindi, “non degna di essere vissuta”?

Ma chi può decidere della felicità altrui? A chi vogliamo dare il potere di dispensare vita o morte in base agli “attributi” di una persona? I disabili – nonostante le difficoltà, anche gravi – sono protagonisti di una vita intensa, capace di creare relazioni profonde, autentiche e arricchenti con quelli che li incontrano. I cd. normodotati non lo sanno (e non ci credono) perché in sostanza li temono. Hanno paura della diversità, della sofferenza, della difficoltà. Rifiutano l’idea che la felicità sia data da ciò che si è e non da ciò che si ha o si fa.

Ogni vita merita una possibilità, l’opportunità di sperimentare l’amore. Perché ogni vita è a immagine e somiglianza di un Dio che è salito sulla Croce, ma poi è uscito dal sepolcro, per insegnarci a vedere oltre. Oltre la Croce, oltre i problemi e le difficoltà.

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