ATTUALITÀ
Benedetto XVI: 2005-2013. Cinque tra le perle del suo Pontificato
dal Numero 8 del 24 febbraio 2013
di Fabrizio Cannone

Il Sommo Pontefice dà le sue dimissioni. Un fatto eclatante tra i rarissimi precedenti. Nell’attesa di quel che avverrà ora nella Santa Chiesa, ciò che è stato in questi 8 anni di Pontificato è doveroso ricordarlo, esprimendo riconoscenza e gratitudine al nostro Santo Padre Benedetto XVI.

    Nello sbalordimento generale Benedetto XVI ha annunciato, durante il Concistoro cardinalizio dell’11 febbraio 2013, festa della Madonna di Lourdes e LXXXIV anniversario del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, la sua rinuncia, per ragioni di salute, alla più alta carica della terra: quella di Successore di Pietro, Vescovo di Roma e Vicario di Cristo in terra.
    Scrivendo in prossimità dell’annuncio (12 febbraio) e non essendo profeti non siamo in grado di fare nessuna previsione sull’andamento delle cose nella Chiesa, sulle modalità e gli sviluppi del futuro Conclave, e su tutti gli altri elementi annessi e connessi. Il Papa ha dichiarato di voler restare sul trono più alto sino alla fine di febbraio, per cui, visti i tempi tecnici per il Conclave (senza però le tradizionali cerimonie per un Pontefice defunto), padre Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, ha dichiarato che probabilmente già per la prossima Pasqua (31 marzo) ci sarà un nuovo Successore di Pietro e la Sede vacante sarà cessata.
    Che si può dire di questo gesto del tutto inatteso, che non si ripeteva dal Medioevo (1249, con san Celestino V) e dal tempo del Concilio di Costanza (1415, con Gregorio XII), in tutt’altre circostanze storiche? Anzitutto giova ricordare che il Codice di Diritto Canonico attualmente in vigore (1983) prevede esplicitamente la rinuncia al Sommo Ufficio con queste precise parole: «Il Romano Pontefice ottiene la potestà piena e suprema nella Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione. Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato Vescovo (§1). Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno l’accetti (§2)» (can. 332). Quest’ultima precisazione ha profonda congruenza teologica con quanto insegnato comunemente dalla Chiesa, specie dopo le chiarificazioni del Vaticano I sull’Autorità e il Primato su tutta la Chiesa e sullo stesso Episcopato mondiale esercitato del Vescovo di Roma. Come insegna, con forza e pari densità dottrinale, il canone 331: «Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente». Ogni parola andrebbe analizzata e commentata ampiamente, ma per evitare lungaggini, rinviamo il lettore interessato, agli ottimi commenti dell’edizione bilingue del Codex curata da una vasta équipe di studiosi presieduta da Juan Ignacio Arrieta (Codice di Diritto canonico e leggi complementari, ed. Coletti a San Pietro, Roma 2004).
    Concludendo la quæstio canonica, vogliamo ricordare le 5 perle del Pontificato appena concluso. Non neghiamo che si potrebbero trovare altre perle in un Pontificato così ricco seppur di neanche 8 anni, ma noi preferiamo sottolineare alcuni meriti tra i più rilevanti dal punto di vista spirituale, in ordine alla restaurazione della Chiesa e del Cattolicesimo, che da mezzo secolo vive in uno stato di lenta inesorabile agonia.
    1) Il Discorso alla Curia Romana del Natale del 2005. Questo memorabile Discorso resterà alla storia come il discorso delle due ermeneutiche: quella della continuità e quella della discontinuità. Il Papa approva la logica della continuità: la Chiesa esiste in quanto Tradizione, in quanto piena continuità con il Vangelo e l’eredità di Cristo. Tutti i cambiamenti storici e accidentali, come quelli che si ebbero nell’ultimo Concilio, sono del tutto secondari e non scalfiscono affatto il permanere del Depositum fidei già consolidato. Certo, già nel Concilio e soprattutto dopo, si manifestarono esigenze e tendenze andanti nel senso della discontinuità, pretendendo di riportare la Chiesa ai secoli pre-costantiniani (cioè a prima del 313, alla Chiesa delle catacombe). Ma Benedetto XVI ha ben distinto la discontinuità reale, che esiste in ogni società e realtà viva: vivere infatti significa mutare; essa però si fonda sulla prevalente continuità, così come il bambino diviene adulto (rinnovando completamente le cellule e il sangue), ma mantenendo l’essenza della stessa persona, ovvero l’anima che non varia di un millimetro.
    2) Il Discorso di Ratisbona del 2006. In quel discorso il Sommo Pontefice, ricordò l’importanza storica e provvidenziale dell’incontro tra la fede cristiana biblica e il pensiero greco. Tra i mali della Chiesa del post-Concilio v’è sicuramente la perdita delle radici storiche del fatto cristiano. Tra le radici non solo perse, ma volontariamente estirpate da molti, figura sicuramente la tradizione e l’eredità classica, che fa capo alla filosofia greca e al Diritto romano. La filosofia greca, non dimentichiamolo, è alla base della futura grandiosa speculazione cristiana (Ambrogio, Agostino, Boezio, Alberto, Tommaso, Bonaventura, Scoto, ecc.). Il Diritto romano poi sta alla base del Diritto Canonico (e dello stesso Diritto Ecclesiastico) e ne costituisce la pur imperfetta piattaforma naturale, elevato a dismisura dalla Legge di grazia del Vangelo. Senza questi due fondamenti storici, l’eredità cristiana appare compromessa o fondata sulle nuvole (come un’anima senza corpo). Non a caso i modernisti di primo Novecento, come i protestanti del XVI secolo, odiano la lingua di Roma (il latino), la Liturgia (vista come sfarzo pagano) e il Diritto antico, giudicato formalista, materialista, universalista, astratto. Benedetto XVI ha attaccato frontalmente questo abbandono dell’eredità classica, descrivendone bene le tappe (Riforma, Rivoluzioni moderne, ’68, crisi teologica post-conciliare).
    3) Il Motu Proprio Summorum Pontificum del 2007. Dalla riforma liturgica del 1969-’70 sono aumentate nel mondo intero le Messe e le cerimonie «al limite del sopportabile» come disse lo stesso Benedetto XVI. Un grave limite della riforma e della sua universale applicazione fu il fatto di essere presentata come un rinnovamento che escludeva ogni forma rituale precedente. Come se ogni liturgia cattolica dovesse seguire le mode culturali del momento. Tutti conosciamo purtroppo le Messe ridotte a schitarrate, con balli e canti di fatto blasfemi e con celebranti travestiti da pupazzi di carnevale. Perfino veniva detto ai fedeli migliori, innamorati del Rito antico (che risale a Gregorio Magno e non a san Pio V), che il loro desiderio della Messa in latino era segno di “mentalità scismatica”! Il che è palesemente assurdo. Benedetto XVI ha apportato un (parziale) rimedio a questo stato di fatto, mostrando indomito coraggio, anche nell’opporsi a certi Prelati e Pastori. La Liturgia immemoriale e il Breviario, i Sacramenti celebrati con il Rito antico e tutto il resto, stanno suscitando o forse risuscitando vocazioni, conventi, monasteri, nuovi Ordini religiosi.
    4) La revoca delle scomuniche ai 4 Vescovi della Fraternità San Pio X del 2009. Sebbene la controversia giuridica tra Santa Sede e cosiddetti lefebvriani non sia ancora giunta al felice epilogo atteso da tutti i buoni, la revoca della scomunica ha avuto e ha un senso più generale. Il “tradizionalista” non è, in quanto tale, qualcuno che si pone contro la Chiesa e al di là di essa. Anzi, esso si trova indubbiamente, sebbene si tenti di marginalizzarlo, nel cuore della cattolicità. È il “progressista” che sta fuori dalla Comunione e questo per la nota incompatibilità delle sue posizioni (in campo teologico e morale) con quelle del Magistero cattolico. La Tradizione non è un Museo che si possa abolire e disfare in nome di un Concilio; ma sono i Concili che hanno senso e perenne validità nella misura in cui si collocano sul terreno della Tradizione perenne e ininterrotta. Il Papa per questo suo atto magnanimo dovette scusarsi con una Lettera davanti alle ribellioni sia massoniche che catto-progressiste. Cosa inconcepibile e che mostra bene l’irriducibilità del modernismo con il Cristianesimo, e la congruenza del “tradizionalismo” (nel senso di amore alla Tradizione) con la Fede cattolica apostolica.
    5) La ripresa della pratica della concessione delle Indulgenze. Pochi lo hanno notato ma Benedetto XVI ha concesso molte volte (per l’Anno Sacerdotale per esempio, o per l’Anno della Fede che stiamo vivendo) le canoniche e tradizionali Indulgenze, riannodando con questa tradizionale dottrina cattolica, odiata da luterani, modernisti e “conciliaristi” vari. Ma se la Chiesa e il Papato possono concedere le Indulgenze è perché esiste davvero il Tesoro della Chiesa formato dai meriti di Cristo e dei santi, ed esiste altresì il Purgatorio. Se esiste il Purgatorio esiste la pena. E se esiste la pena, da espiare in terra o dopo la morte, esiste anche la colpa e il peccato. Se esiste il peccato però, deve esistere anche il peccato inespiato e dunque deve esistere l’inferno per chi lo compie e il Paradiso per chi ne è immune... Le buone opere per l’espiazione dei peccati sono tornate in auge e questo è un gran bene. Insomma la pratica della concessione delle sante Indulgenze, rinnovata da Benedetto XVI, è un chiaro segno di continuità, di buona dottrina e di fedeltà inconcussa alla Tradizione, né più né meno. Non possiamo che gioirne in Domino.
    Auguriamo infine a Benedetto XVI una vita serena e una fine felice, all’altezza di Pietro e di Cristo, e al suo Successore ogni bene, in particolare la fermezza nel governo e l’intransigenza davanti all’errore.

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