ATTUALITÀ
Epidemia, tra il presente e il futuro
dal Numero 11 del 15 marzo 2020
di Lazzaro M. Celli

Mentre il Coronavirus ha portato alla sospensione delle Messe pubbliche, è giusto chiedersi: quale lezione ci viene dal passato? Le epidemie infatti non sono una novità nella storia, ma ben altre erano le soluzioni adottate per affrontare e placare questi flagelli in tempi in cui si viveva davvero di fede.

Quando a Castiglione d’Adda, nel lodigiano, c’è stato il primo caso di contagio da Coronavirus in Italia, le autorità civili hanno decretato la chiusura degli esercizi pubblici e dei luoghi comunali. All’Ordinanza si è adeguata anche la Chiesa, e dunque, in diverse diocesi, non è stato possibile partecipare alla Santa Messa giornaliera.

Non vogliamo giudicare le scelte di nessuno, ma limitarci a fare una semplice considerazione. Agli occhi di chi è abituato ad un pensiero che si traduce in un cristianesimo sociale, operativo, fatto solo di prassi, senza dottrina, sembra essere una soluzione dovuta; una necessaria precauzione da adottare per limitare i possibili casi di contagio. Non occorre, però, aver fatto chissà quali studi per capire che è la soluzione di chi ha ormai sradicato la fede dalla vita quotidiana. Basta il sensus fidelium, cioè il comune senso religioso dei fedeli, iscritto nel DNA di ogni uomo in quanto creatura di Dio, per condurci ad una serena riflessione verso questa triste conclusione.

Quanto sta accadendo nel contesto sociale potremmo considerarlo il riflesso della discussione che ribolle, in campo accademico, sul rapporto tra ortoprassi e ortodossia, il tutto favorito dall’opera dei mistificatori, dei sottili ragionatori, come li definisce san Paolo. Eppure, la verità è limpida e può essere afferrata da tutti, dal colto quanto dal meno colto; dal filosofo o dal contadino, direbbe Leopardi con un epilogo pessimista.

Per l’uomo che vuole vivere di fede, che vuole impegnarsi nell’imitazione dei santi, la soluzione di non celebrare la Santa Messa in pubblico è peggiore del contagio da coronavirus. E con questo non si tratta di voler ostentare un’ostinazione anacronistica, come di chi è incapace, per una considerevole dose di chiusura mentale, di condividere soluzioni di “buon senso”. Si tratta semplicemente di affermare il primato della vita di fede su ogni altro aspetto della vita sociale e culturale. Un primato che non impediva ai cristiani di ogni tempo di soccorrere i bisognosi nei casi in cui scoppiavano epidemie mortifere nel corso della storia e che, con il loro contributo, hanno permesso il progredire della scienza medica. Ancorati ad un cristianesimo inquinato dalla materialità, noi non riusciamo più a vedere le cose con uno sguardo di fede.

Con l’aiuto di uno storico serio, il professor De Mattei, ci lasciamo condurre in un viaggio nel passato, per guardare la soluzione della Chiesa ai tempi in cui si viveva di fede anche per affrontare i flagelli delle epidemie. Siamo nell’anno 590 e la luesinguinaria mieteva uomini come la falciatrice le spighe. La terribile peste aveva appena stroncato la vita di papa Pelagio II. Il nuovo papa Gregorio I, poi denominato Magno per l’instancabile zelo con cui governò la Chiesa e sostenne la comunità cristiana con opere sociali, dovette subito fare i conti con questo tormento. Orbene quale fu la sua risposta? Ordinò che l’intera popolazione di cristiani facesse una processione. Nel giro di un’ora, durante la marcia del religioso corteo, perirono circa 80 persone. La notizia è riportata da san Gregorio di Tours, contemporaneo di san Gregorio I, nel libro Historiae Francorum. Nella processione era sfoggiato il quadro della Beata Vergine Maria. Il professor De Mattei ricorda pure Jacopo da Varazze, domenicano e vescovo di Genova, che, verso la fine del 1200, fissò in uno scritto il racconto orale tramandato fino ad allora. Certe storie sensazionali, di pubblico dominio, non si possono inventare. In fondo la fede è l’incontro con il divino e il divino è un evento che ha sempre del sensazionale per noi che non siamo abituati a vivere di esso. Il libro riporta che durante la processione: «[...] man mano che la sacra immagine avanzava, l’aria diventava più sana e limpida ed i miasmi della peste si dissolvevano, come se non potessero sopportarne la presenza. Si era giunti al ponte che unisce la città al Mausoleo di Adriano, conosciuto nel Medioevo come Castellum Crescentii, quando improvvisamente si udì un coro di angeli che cantavano: “Regina Coeli, laetare, Alleluja – Quia quem meruisti portare, Alleluja – Resurrexit sicut dixit, Alleluja!”. Gregorio rispose ad alta voce: “Ora pro nobis rogamus, Alleluja!” [...]. Dopo il canto [...] Gregorio, alzando gli occhi, vide sulla sommità del castello un angelo che, dopo avere asciugato la spada grondante di sangue, la riponeva nel fodero, in segno del cessato castigo [...]. Comprese Gregorio che la peste era finita e così avvenne: e quel castello fu d’allora in poi chiamato il Castello dell’Angelo». È a partire da questo episodio che risale la preghiera del Regina Coeli che recitiamo durante il Tempo pasquale.

È proprio giunto il momento in cui dobbiamo prendere sul serio il monito che ci giunge dalla storia, e cominciare giudiziosamente a menare una vita di penitenza. Che questo tempo di Quaresima ci sia favorevole nel formulare ed applicare santi propositi.

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