ATTUALITÀ
Lavoro e disoccupazione oggi. Una prospettiva cristiana
dal Numero 7 del 19 febbraio 2017
di Roberto Ciccolella

L’ottica cristiana resta sempre molto adeguata per inquadrare la situazione sociale e lavorativa del tempo presente, i suoi problemi e deficit, ma anche le possibili soluzioni.

È notizia di questi giorni che il tasso di disoccupazione giovanile è al 40%. Il rapporto periodico dell’Istat pubblicato il 31 gennaio segnala che il numero totale dei disoccupati si attesta sui 3milioni e 103mila, cioè 9mila unità in più da novembre scorso e 144mila in più rispetto a dicembre 2015. Il valore nazionale totale è stabile sulla triste media del 12%. Questa la realtà che dobbiamo fronteggiare e che non possiamo essere certi migliorerà nel breve periodo. Eppure dobbiamo aver fiducia proprio nel valore cristiano del lavoro e nell’esercizio delle virtù, perché questo potrà essere un punto di ripartenza.
Le diverse riforme, da quella intitolata a Biagi a quella della Fornero e poi il Jobs act di Renzi, non sembrano aver risolto granché e anzi hanno precarizzato ulteriormente le condizioni dei lavoratori. Emblematico ormai l’uso scorretto dei voucher che – pur nati con la buona intenzione di regolarizzare e dare copertura pensionistica ai lavori occasionali, come ad esempio le ripetizioni a casa – sono diventati strumento abituale di retribuzione in ristoranti, edilizia e uffici... nonché espediente per coprire il lavoro nero. Ora, ricordiamo che non riconoscere la dovuta mercede agli operai è peccato che grida vendetta al cospetto di Dio. Dobbiamo però ammettere che anche per gli imprenditori la situazione è molto difficile e non sono necessariamente responsabili di questo stato di cose. Fra una tassazione insostenibile, alti costi dell’energia, una notevole litigiosità in sede civile e amministrativa e infine un mare di leggi e burocrazia, fare impresa in Italia è un atto di coraggio quasi eroico. E alla fine gli imprenditori sono quelli che danno lavoro e paga ai dipendenti, quindi lo Stato dovrebbe supportarli e alleggerire gli oneri che li gravano. Infatti la tradizione artigiana e l’attitudine a far da sé hanno saputo imprimere uno slancio economico al Paese che è la base del nostro benessere. Come ricorda un approfondimento del Centro Studi di Confindustria dell’11 aprile scorso, gli italiani sono per il 2,2% imprenditori e per il 24,9% lavoratori indipendenti, più del doppio delle percentuali di Francia e Germania. Cioè, siamo un popolo che non ha paura di mettersi in gioco per creare occasioni di sviluppo. Ma secondo il 78% degli imprenditori intervistati la situazione si fa sempre più difficile anche per loro, insomma anche lo spirito di impresa oggi è messo male.
La congiuntura economica presenta poi altre difficoltà: la serrata concorrenza al ribasso dei Paesi in via di sviluppo, una moneta come l’Euro troppo forte per il nostro sistema produttivo, il differenziale nei costi di accesso al credito rispetto ai Paesi centro e nord-europei, il rischio che la robotizzazione spinta – la cosiddetta industria 4.0 – distrugga milioni di posti di lavoro. Insomma il quadro non è certo roseo. E d’altronde la società stessa è in frantumi, con separazioni familiari, dipendenze, gioco d’azzardo legale e corruzione che dilaga, tutti fenomeni che impoveriscono il popolo e favoriscono indirettamente la stessa disoccupazione. Dobbiamo quindi chiederci se la crisi economica non è forse rivelatrice della crisi morale che ci affligge. E notare come quando l’uomo viola le Leggi di Dio per perseguire il profitto finisce a gambe all’aria. Penso alle annunciate chiusure di alcuni supermercati Carrefour, catena francese che dell’apertura domenicale – e 24 ore su 24 – ha fatto bandiera, senza però rimpinguare i suoi bilanci. 
Sappiamo che il Cristianesimo ha nobilitato il lavoro manuale e che Gesù come gli stessi Apostoli, si pensi a san Paolo, erano lavoratori. Dal monachesimo fino a san Josemaría Escrivá, la Chiesa ha elaborato per secoli un’etica del lavoro, riconoscendolo come luogo in cui acquistare ed esercitare la virtù. Per questo è bene sapere che proprio riedificando una società cristiana potremo garantire migliori condizioni agli operai e maggiori opportunità agli imprenditori. L’esercizio pubblico della virtù avrebbe impedito ad esempio lo scoppio della crisi del 2007, nata da prestiti concessi irresponsabilmente a milioni di americani che volevano vivere al di sopra delle proprie possibilità. Anche la crisi dei prestiti bancari in sofferenza di grossi gruppi come Monte dei Paschi di Siena viene da un modo di prestare i soldi per lo meno dubbio. La solidità dell’istituto familiare poi sarebbe un presidio contro l’impoverimento dovuto ai divorzi e relative spese che riducono in miseria molti padri. E il rispetto del principio di sussidiarietà eviterebbe agli investitori un mercato asfittico e vischioso, dovuto all’eccessiva presenza statale. Un’accoglienza ordinata dei migranti permetterebbe di contribuire alle casse dell’INPS senza però danneggiare i livelli dei salari degli italiani. Si tratta solo di alcuni rilievi per spiegare i danni all’economia – e al popolo – causati dalla non applicazione della Legge divina.
Ma proviamo a pensare alle soluzioni, anche guardando al passato. È il pensiero francescano medievale a studiare i concetti di giusto prezzo del denaro e del lavoro, nonché le condizioni per i prestiti di denaro, ponendo le basi per lo sviluppo dell’economia commerciale che fece per secoli della Penisola italiana uno snodo di occasioni. Quando invece il capitalismo industriale aveva generato squilibri e degrado, a cavallo tra ’800 e ’900, i Cattolici hanno fondato casse rurali e cooperative, mettendo le basi per una crescita economica solida e umana. E Santi come Don Bosco si sono occupati di recuperare gli emarginati e fornire loro un’educazione tecnica capace di reinserirli nel mondo lavorativo. Ancora: quando nel secondo Dopoguerra la contraccezione non era nemmeno immaginabile, le famiglie italiane si sono moltiplicate e hanno creato le basi per il cosiddetto miracolo economico degli anni ’50, dovuto alla crescita dei consumi e al boom edilizio per soddisfare i tassi demografici in aumento. Questo miracolo materiale peraltro andò a rallentare proprio in corrispondenza dell’inizio del processo di secolarizzazione del nostro Paese.
Insomma anche oggi possiamo sperare di uscire dalla crisi e creare nuovi posti di lavoro, ma dobbiamo farlo a partire da due punti. Il primo è l’applicazione dei principi cristiani all’economia, come Papa Benedetto XVI ha ribadito nell’enciclica Caritas in veritate. Il secondo è immediato e ci tocca tutti, si tratta di vivere in conformità ai Precetti del Signore. Cioè per essere molto concreti, se siamo benestanti ricordarci del valore sociale dell’impresa e quindi rispettare i lavoratori, l’ambiente – cioè anche la salute dei cittadini – e fare molta carità sapendo che Dio ricompenserà; se siamo dipendenti, lavorare in modo alacre e umile, cercando di mettercela tutta per il progresso dell’azienda o ente che ci dà lo stipendio; se siamo in situazione di bisogno, confidare in Dio che avrà cura di noi e anche nelle strutture ecclesiali che ci supportano, dal micro-credito per famiglie e piccoli imprenditori agli empori della carità in cui si può acquistare dei beni senza pagare. Per tutti poi vale la moralità personale che è la prima polizza assicurativa per non rovinarsi economicamente: evitare alcool, gioco, vizi impuri e relazioni extraconiugali, ozio e lavoro domenicale; oltre a salvarci l’anima è uno scudo contro quei dissesti finanziari che gettano sul lastrico le famiglie.
Ecco, non possiamo certo pensare di sradicare completamente il male finché siamo su questo mondo. E la povertà e la disoccupazione sono conseguenze di quel male e di quel peccato originale che ci infetta tutti sin dal concepimento. Eppure la Bibbia, il Magistero e gli esempi dei Santi sono un vero manuale d’uso per la società che se applicato a dovere – anche nel XXI secolo – può garantire a tutti il pane quotidiano e anche qualcosa in più.

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