CATECHESI
La virtù teologale della carità
dal Numero 5 del 31 gennaio 2016
di Don Leonardo M. Pompei

L’ultima delle tre virtù teologali è la Carità. Ultima non certo per importanza; infatti, la virtù della «carità è così grande perché è quella che esprime la vita intima di Dio», e costituisce persino un vero e proprio «precetto».

«Queste dunque sono le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità. Ma di tutte più grande è la carità» (1Cor 13,13). Queste celebri parole dell’Apostolo delle genti, che chiudono in maniera mirabile il cosiddetto “inno alla carità”, fanno immediatamente comprendere l’abisso che si apre quando ci si accinge a parlare di questa formidabile virtù, la più grande e la regina di tutte, che tutte governa e regola e senza la quale niente è gradito e accetto a Dio. Eppure poche virtù come questa sono così soventemente travisate e non comprese nel loro significato autentico e profondo.
Non è raro, nel pensiero comune, confondere la carità con le piccole (o anche grandi) elemosine fatte a favore di qualche indigente; oppure identificarla con qualche pur importante e meritoria opera di misericordia, quale il volontariato in una mensa dei poveri, la costruzione di ospedali e case di formazione o per anziani in terra di missione e simili; o infine travisarne il concetto facendola scadere in un nefasto “buonismo” che tende a giustificare tutto e tutti, a cancellare la distinzione tra bene e male, a nascondere – dietro lo specioso pretesto del “non giudicare” – una pericolosissima abdicazione dal dovere di dire la verità e denunciare il male e il peccato (senza ovviamente condannare senza appello il peccatore) dovunque appaia e comunque si manifesti.
La carità è virtù così grande perché è quella che esprime la vita intima di Dio. Non senza ragione, in ben due luoghi della sua prima lettera, san Giovanni, il discepolo prediletto di Gesù e l’Apostolo dell’amore, ha perentoriamente affermato che «Dio è amore» (1Gv 4,8.16) dando quasi l’impressione di voler tentare l’impossibile definizione dell’essenza di Dio. Stiamo dunque dinanzi a qualcosa di veramente grande. Proviamo dunque a fissare lo sguardo sul sole di quest’aurea virtù, che dà vita al primo e più grande dei Comandamenti, e che rappresenta il principio e il fine della perfezione cristiana.
San Tommaso d’Aquino insegna che la carità è l’amicizia di benevolenza tra l’uomo e Dio, creata in noi da Dio affinché la volontà agisca con prontezza e facilità per amore di Lui. È la più grande delle virtù perché ha Lui come oggetto immediato e diretto ed è la forma di tutte le virtù in quanto ordina tutti gli atti dell’uomo al fine ultimo. Essa infatti consiste anzitutto nell’amare Dio con tutto se stessi: con la totalità della dimensione affettiva («amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore»), con la to­talità della dimensione intellettiva («amerai il Signore tuo Dio con tutta la tua mente») e con la totalità della dimensione volitiva («amerai il Signore tuo Dio con tutte le tue forze»). Solo Dio va amato in questo modo pieno, totale e assoluto; e per quanto ci possiamo adoperare e sforzare – insegna sempre san Tommaso – è praticamente impossibile adempiere con perfezione questo primo precetto della carità. Unica eccezione è la Beatissima e Sempre Vergine Maria, l’Unica che è stata capace di amare Dio, pur da creatura, come merita, nel senso che, anche se certamente nemmeno Lei ha potuto, in quanto creatura limitata, adeguare perfettamente l’infinito amore che Dio si merita, l’ha amato al massimo possibile per una creatura, per cui nessuno ha amato Dio quanto Maria Santissima e nessuno mai potrà uguagliarla in questo. Qualche Santo particolarmente devoto alla Madonna ha addirittura affermato che l’amore di Dio della Vergine Santissima supera, da solo, quello di tutti gli Angeli e Santi messi insieme!
Da questo primo precetto discende immediatamente il secondo, che è quello dell’amore del prossimo. Al riguardo l’Aquinate sottolinea che l’amore santo di se stessi (cioè l’amore della propria anima), viene logicamente prima dell’amore del prossimo (ed infatti il precetto prescrive di amare il prossimo come se stessi). Ovviamente si tratta di amore santo, perché sia l’amore di sé che l’amore del prossimo trovano la loro ragion d’essere nell’amore di Dio, il solo che va amato per se stesso. Noi amiamo la nostra anima e quella del prossimo in quanto in esse c’è l’immagine e la somiglianza di Dio e perché Egli le ha create per sé e per renderle partecipi della sua beatitudine. Tutte le altre forme di “amore” non hanno che il nome di questo atto, ma ben poco della sua sostanza. Questo amore comprende anche quello al nemico (di cui si deve desiderare la conversione e la salvezza) e ad esso devono essere sacrificati i beni esterni ed anche lo stesso corpo, come Gesù insegna nel Vangelo. Avremo modo presto di approfondire queste ultime suggestioni.

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