CATECHESI
Tra calunnie, maldicenze e giudizi temerari. L’Ottavo Comandamento: “Non pronunciare falsa testimonianza”
dal Numero 3 del 20 gennaio 2013
di Don Leonardo M. Pompei

Una falsità particolarmente grave è la calunnia, che danneggia, oltre la persona di cui si sparla, l’anima di chi la pronuncia, come quella di chi l’ascolta. Anche il pensare male del prossimo senza prove fondate è da evitare: ogni cristiano deve scusare sempre il prossimo, se non nelle azioni, nelle intenzioni.

Uno dei peccati indubbiamente più gravi contro l’Ottavo Comandamento è la calunnia, che si compie quando si attribuisce al prossimo un male che non ha compiuto o un difetto che non ha. È questa, in assoluto, la forma più grave di maldicenza ed è tanto più odiosa in quanto ordita, ordinariamente, ai danni della vittima, alle sue spalle e senza possibilità di difesa, aggravata inoltre dal fatto che, generalmente, a causa della miseria umana, le notizie cattive circolano con estrema rapidità e, in questo caso, prima che giungano alle orecchie del diretto interessato, hanno già avuto ampia e indebita diffusione. Il santo Curato d’Ars, in una tanto splendida quanto celebre omelia sulla maldicenza , ebbe ad ammonire che questo peccato è molto più frequente di quanto si pensi, perché quando si parla male «quasi sempre si aggiunge qualcosa e si aumenta il male che si dice del prossimo». Gonfiare il male realmente fatto dal prossimo, quindi, non è semplice maldicenza (di cui ci occuperemo tra poco) ma vera e propria calunnia. Inoltre il grande Santo patrono dei parroci aggiunge che «una cosa che passa per molte bocche, non è più la stessa; colui che l’ha detta per primo non la riconosce più, tanto è stata cambiata e accresciuta». Dal che conclude severamente con la sentenza «ogni calunniatore è un infame», e cita una massima di un padre della Chiesa, secondo la quale «bisognerebbe scacciare i maldicenti dalla società degli uomini come se si trattasse di bestie feroci».
    La calunnia è sempre peccato mortale (a meno che la falsità del male attribuito non sia lievissima o insignificante) e obbliga il colpevole alla riparazione, ovvero a rettificare l’informazione calunniosa con gli stessi mezzi e nei confronti delle stesse persone a cui è pervenuta per colpa sua. Purtroppo, come insegna il celebre aneddoto del pollo spennato raccontato da san Filippo Neri, non è possibile generalmente una riparazione globale che restituisca integra la buona fama del calunniato, a causa della circolazione della notizia, tanto più veloce nei nostri tempi quanto istantanei e globali sono i moderni mezzi di comunicazione (stampa, Tv, internet, social networks...). Dio ci guardi da questa vera e propria peste devastante.
    Distinto e più ampio è il raggio di azione del peccato di maldicenza che, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, consiste nel comportamento di chi, «senza un motivo oggettivamente valido, rivela i difetti e le mancanze altrui alle persone che li ignorano» (n. 2477). Per la verità gli autori distinguono la maldicenza semplice (consistente nel parlare male del prossimo evidenziando lati negativi già conosciuti dagli interlocutori) dalla mormorazione, che consiste nella fattispecie appena menzionata, ovvero nel portare a conoscenza degli altri colpe o difetti ignorati dai destinatari. È colpa non solo il parlare male, ma anche il pensare male (ovvero giudicare, come vedremo tra poco) e soprattutto ascoltare, senza reagire, calunnie, maldicenze e mormorazioni. Come sottilmente nota don Giuseppe Tomaselli nel suo aureo libretto I peccati di lingua nel capitolo dedicato alla maldicenza , col peccato di maldicenza vengono commessi tre danni morali: il primo lo reca il maldicente all’anima propria, poiché commette peccato; il secondo lo fa a chi ascolta la maldicenza, il quale pecca a sua volta; e il terzo a colui del quale si sparla a cui si toglie l’onore.
    Ciò detto si badi tuttavia alla clausola opportunamente menzionata dal Catechismo. La maldicenza non c’è quando sussiste un motivo oggettivamente valido per rivelare il male fatto. Tra i tantissimi esempi che si possono citare ne faremo solo alcuni, volti a bucare quel muro di colpevole omertà che si crea nei casi di colpevole connivenza col male, fatta passare come virtù sotto lo specioso pretesto di non fare la “spia”. Il male, infatti, va denunciato e talora è necessario denunciare il nome del colpevole perché sia posto, da chi ne ha l’autorità, in condizione di non nuocere, oppure sia avvertito del male a cui va incontro chi incautamente non tenesse conto dell’ammonizione ricevuta. Per esempio, se si vede il figlio di un amico compiere un’azione disdicevole, non solo si può ma si deve dire ai genitori, che hanno il compito di educarlo; se si è assolutamente certi dell’incompetenza o della disonestà di un commerciante o di un professionista, non è certamente peccato dire a qualche amico di evitare di rivolgersi a loro; se si sentono dire oggettive eresie da qualche pulpito, dopo averlo fatto notare al diretto interessato, qualora questi non mostri di aver compreso e di voler emendarsi, si deve riferire il fatto all’autorità canonica perché riprenda il colpevole onde non induca in errore, con la sua autorità, altre anime; simile discorso va fatto quando si ricevono in sede di confessione sacramentale, direttive o consigli che sono contrari alla Morale cattolica così come insegnata dal Magistero della Chiesa. Nella valutazione di questa motivazione bisogna cercare di essere il più oggettivi possibile evitando di mascherare come atto doveroso una cattiveria gratuita nascosta sotto il bieco velo dell’invidia. Coloro che sono puri nel cuore e nelle intenzioni certamente non incorreranno in questi abusi, ma sapranno discernere con verità e prudenza le circostanze che consentono o obbligano a rivelare le colpe morali del prossimo.
    Infine bisogna spendere qualche parola sul giudizio temerario, che consiste nel comportamento di chi «anche solo tacitamente, ammette come vera, senza sufficiente fondamento, una colpa morale nel prossimo» (CCC 2477). Come si vede, questo peccato consiste in ciò che comunemente si chiama “pensare male” ed è da ben comprendere. Non è giudizio temerario il prendere atto di un fatto oggettivo che si vede in una persona e regolarsi di conseguenza (cosa, anzi, doverosa, onde non cadere nell’ingenuità). Se vedo che una persona sparla del prossimo senza ritegno rivelando anche cose intime e personali, sarei uno sciocco se gli rivelassi le mie confidenze personali sotto il pretesto che “non bisogna giudicare”. Se due persone convivono fuori del Matrimonio non è che non giudicare significa “fare finta di nulla”. L’unica cosa che si può (e si deve) fare, in simili situazioni, è astenersi dal giudicare le intenzioni, ovvero pensare che forse il colpevole non si rende conto di quello che fa, o della sua gravità, che ha avuto una cattiva formazione, o cose simili. Colui che ha detto di non giudicare, infatti, ha anche ammonito dal non giudicare secondo le apparenze ma con giusto giudizio. Era evidente, per esempio, che i farisei si atteggiassero da santi senza esserlo e di questo bisognava, anche ai tempi della vita terrena del nostro Maestro, prendere atto; tuttavia, anche dinanzi a tale evidenza, era (ed è) sempre possibile dire o pensare: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”, cercando in tutti i modi, quando non si può scusare l’azione, di scusare o minimizzare la colpevolezza delle intenzioni. Al limite pensando, come suggerisce qualche santo autore: “Ha subito una tentazione troppo forte a cui, per debolezza, non ha saputo resistere”.

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