CATECHESI
L’Amore è Dio Unitrino
dal Numero 7 del 19 febbraio 2017
di Don Leonardo M. Pompei

Le creature dotate di ragione sono capaci di conoscere, ricevere, comprendere, corrispondere all’Amore divino, e viverlo donandolo agli altri. L’Amore infatti è il mistero dell’Essenza divina, ed è anche il mistero di ogni sua creatura, che per amore è stata creata e all’amore aspira.

La Professione di fede dell’undicesimo Sinodo di Toledo, che abbiamo esposto negli articoli precedenti, mi è sembrata la più degna, chiara e limpida conclusione di questo lungo excursus alla scoperta di quel poco che si può conoscere del primo e grandissimo Mistero della nostra Fede.
Riprendendone in quest’ultimo articolo qualche espressione, vorrei anzitutto ribadire che la rivelazione del Dio Trino e Unico è la stessa cosa che la rivelazione dell’Amore come essenza di Dio. Il fatto che le Persone Divine siano tre (cioè l’unico vero Dio è uno, ma non è “da solo”), coeterne (“non c’è un prima e un dopo”), uguali (“non c’è un maggiore o un minore”), pienamente e ugualmente in possesso della pienezza dell’unica sostanza divina senza nessuna differenza o gradazione (“hanno indivisa e uguale divinità, maestà o potestà, che non è né diminuita nelle singole Persone, né aumentata dalle tre insieme”) non è altro che l’ovvia conseguenza (e al tempo stesso condizione di possibilità e verità) della grande rivelazione del Mistero divino nell’emblematica e audace definizione che osò dare di esso solo l’Apostolo prediletto di Gesù: «Dio è amore», come scrisse in due distinti versetti del quarto capitolo della sua prima epistola (cf. 1Gv 4,8.16). Se Dio fosse da solo, non potrebbe essere “amore”, dato che il termine stesso “amore” indica una relazione tra un “io” e un “tu”. Se l’amore fosse solo un attributo di Dio e non la stessa essenza divina, allora potrebbe anche essere verosimile quel che pensava l’eretico Ario: solo il Padre è Dio veramente e crea una sorta di “super demiurgo” per mezzo del quale crea l’Universo, avendo con lui, evidentemente, un rapporto d’amore così grande e sublime da rendergli possibile di chiamarsi “figlio” (ma senza esserlo realmente, perché, come gli ariani cianciavano con una filastrocca greca, “[il Padre] c’era, quando [il Figlio] non c’era” – “hen ote ouk hen pote”, in greco). Ma in questo caso non si potrebbe dire che Dio “è” amore, ma solo che Dio (Padre) “ha” un amore immenso per il Figlio. Esso diverrebbe un attributo e non più espressione dell’essenza divina e del suo essere.
Avere chiaro questo, significa, peraltro immediatamente trarne alcune importantissime conseguenze. Anzitutto, stante l’antico principio “agere sequitur esse” (“l’agire segue l’essere”), se Dio è amore (questa è la sua essenza, che peraltro in Lui coincide con l’essere: «Io sono Colui che sono», Es 3,14), tutto quello che Egli fa sia all’interno della Trinità, che all’esterno di essa (creazione e creature) è sempre, soltanto, comunque, dovunque, immancabilmente, infallibilmente e inesorabilmente mosso dall’amore. La perfetta ed infinita beatitudine delle tre Persone divine non è dunque nient’altro che il sommo godimento reciproco dell’infinito amore dell’Una verso l’Altra: e tale sarà la beatitudine che attende tutte le creature intelligenti che la raggiungeranno nell’unione beatifica. Inoltre, il motivo per cui Dio ha creato l’Universo, gli Angeli, le creature intelligenti è sempre e solo l’amore, ossia il desiderio che, tale infinita prorompenza di amore infinito, in qualche modo uscisse dalla sua sede e si comunicasse, in forme svariate, infinite e stupendamente differenziate “fuori di sé”. Conseguentemente tutto parla di Lui, tutto quello che noi vediamo non è nient’altro che una eco, forte o lieve, chiara o pallida, eloquente o silenziosa, del suo amore. Le creature intelligenti (Angeli e uomini), vertici dell’opera creativa di Dio, sono quelle capaci di conoscere, ricevere, comprendere, accogliere, corrispondere all’amore divino e viverlo, dandolo le une alle altre. Allontanarsi da questo, lo stesso peccato, è sempre intrinsecamente un “no” detto all’amore e l’odio (che è divenuto, sciaguratamente lo status quasi ontologico e certamente irreversibile degli angeli ribelli) ne è l’oscura e sinistra conferma. Dove c’è il male, c’è sempre l’odio, ossia una separazione netta dall’amore e dal bene; dove c’è il bene, c’è sempre l’amore. Ecco perché la carità è la virtù più grande di tutte e l’unica che resterà per sempre... Perché l’amore è Dio! Le altre religioni monoteiste, che non hanno accolto questa pienezza della Rivelazione (iniziata nell’Antico Testamento proprio come rivelazione anzitutto dell’unicità di Dio, che esse appunto accolgono, credono e riconoscono), mancano semplicemente di alcuni fondamentali dati per comprendere bene l’essenza profonda della divinità. Noi che abbiamo, come insegna santa Madre Chiesa, la “pienezza della Rivelazione”, dovremmo accogliere in tutto e per tutto il mistero del Dio amore e diventare esperti della sua grammatica, perfetti esecutori dei primi due grandissimi Comandamenti: amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e il prossimo così come l’Amore fatto carne della Seconda Persona ci ha amati. Ecco perché sant’Agostino, in un’enfasi di amore esclamò: «Ama e fa’ quel che vuoi». Purché ben si conosca la grammatica dell’amore. Infine, credere che l’essenza divina di un Dio che è onnipotente è l’amore, significa non avere difficoltà a credere che tutto ciò che accade (che non può accadere al di fuori del suo controllo o senza di esso), anche quando fosse non buono in apparenza, negativo è sempre permesso e consentito per una superiore e non comprensibile ragione d’amore: e questo porta inesorabilmente una grandissima pace e quiete del cuore, che è un altro distintivo dei veri figli di Dio.
Bisogna ovviamente ben comprendere che il primo passo dell’amore è accogliere l’amore divino, recependo anzitutto il cammino della vita che sono i Comandamenti («se mi amate, osservate i miei comandamenti», Gv 14,15) e il punto di arrivo è vivere alla lettera quanto l’Apostolo delle genti, con rara bellezza e maestria, scrisse nel capitolo tredici della Lettera ai Corinzi, nello splendido inno alla carità, di cui mi piace ricordare un passaggio: «Se anche [...] ma non avessi la carità: non sono nulla» (1Cor 13,2). Non solo “non ho nulla” o “nulla mi giova” come aggiunge nel versetto seguente, ma appunto “non sono” nulla, quasi a richiamare velatamente come l’amore, che è il mistero dell’essere e dell’essenza divina, lo è in qualche modo anche della sua creatura, che dall’amore è stata pensata e creata, per amare vive e nell’abbraccio dell’eterno amore troverà il compimento della sua esistenza e la pienezza della beatitudine.

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