CATECHESI
Chi è il vero forte? La virtù della fortezza
dal Numero 28 del 17 luglio 2016
di Don Leonardo M. Pompei

Tutti sono pronti ad ammirare un uomo o una donna “forte”, ma cosa rende tale fortezza virtù, e quindi ammirata anche da Dio? La virtù della fortezza, per essere tale, deve reprimere il timore e regolare l’audacia. In essa infatti si può mancare per difetto o per eccesso.

La terza virtù cardinale è la fortezza. Le più belle definizioni di questa importante e affascinante virtù vengono da alcuni grandi pensatori pagani. Cicerone la definì come il «deliberato esporsi a pericoli e disagi», mentre Andronico disse che la fortezza è «la virtù dell’irascibile che non si lascia spaventare dal timore della morte».
La virtù della fortezza ha come oggetto la rimozione degli ostacoli a compiere il bene causati dalla presenza di difficoltà incombenti che trattengono la volontà impedendole di agire, soprattutto il pericolo della morte, ma anche il timore di altri danni o guai che potrebbero derivare dall’operare secondo virtù. Questa operazione la virtù della fortezza la compie reprimendo il timore (perché sia vinto e superato) e moderando l’audacia. L’atto proprio e principale della fortezza è dunque il resistere al pericolo, vincendo il timore; l’atto secondario e subordinato è regolare l’audacia. La più importante manifestazione di questa virtù, potremmo dire l’atto di fortezza per antonomasia, è il martirio, mediante il quale un cristiano preferisce farsi uccidere che tradire la Verità (cioè la Fede) o rinnegare la giustizia (mancando alla carità), compiendo in questo modo il più perfetto degli atti umani in quanto massimo segno dell’ardente carità (cf. Gv 15,13).
Per mezzo di questa mirabile virtù, viene dunque vinto il timore, che insieme alla tristezza è la passione che più propriamente può dirsi tale e quindi difficilmente vincibile. Essa, infatti, conferisce una tenacia invincibile (o fermezza) nel perseguire il bene anche di fronte al più grave dei timori – che è quello della morte – e quindi anche di tutte le altre possibili forme di sofferenza fisica (dolori corporali) e spirituale (abiezione). Si manifesta soprattutto nei casi imprevisti anche se, ordinariamente, l’uomo forte prevede i pericoli e si prepara ad affrontarli. L’uomo forte propriamente non gode nel compiere gli atti di fortezza (farsi ammazzare, incarcerare, flagellare, percuotere, ingiuriare, calunniare, disonorare, ecc.), ma il godimento della virtù compiuta (grazie all’esercizio della fortezza) impedisce all’anima di farsi vincere dalla tristezza sensibile e di farsi sopraffare dai dolori fisici.
Si può mancare alla virtù della fortezza, come a tutte le virtù, per difetto o per eccesso. Da ciò derivano i due vizi opposti alla virtù della fortezza in quanto tale: la viltà (o paura) e l’audacia (o temerarietà).
La viltà (o paura) è peccato quando è disordinata, cioè quando per paura di certi mali l’uomo si astiene dal perseguire dei beni che devono essere perseguiti. È peccato veniale quando la volontà non dà il consenso, mortale quando la volontà dà il consenso a tralasciare per paura (ad esempio di soffrire qualche pena nel corpo) l’osservanza della Legge di Dio. Non c’è peccato quando si tollera un male minore per sfuggire ad uno maggiore (per esempio, per conservare la vita si lascia che i ladri rubino davanti ai propri occhi); nel caso contrario (accettare un male maggiore per evitare un minore) si ha peccato, ma solo veniale, perché la paura diminuisce notevolmente la volontarietà.
L’audacia (o temerarietà) è la mancanza di retta considerazione dei pericoli, per cui i temerari sono baldanzosi ed impetuosi prima che sopravvengano i pericoli, ma poi, quando arrivano, scappano. Esattamente il contrario fanno i forti, che sanno regolare l’impeto dell’affrontare le cose ostili proprio dell’audacia. Molto affine all’audacia è la spavalderia (o insensibilità al timore), ossia il vizio per mezzo del quale non si teme ciò che va temuto. Il forte infatti non è colui che non teme nulla, ma colui che sa vincere il timore (perfino il più grande) in nome della virtù da compiere.

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